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Care amiche, Cari amici, siamo davvero tanti e da quel che vedo siamo già tutti pronti per una nuova campagna elettorale, e questa volta per vincere alla grande, per vincere davvero. Questa, come sapete, si chiama Piazza del Popolo. Ma da oggi possiamo chiamarla Piazza del Popolo della Libertà. Grazie di cuore di essere qui con me, con noi, tutti insieme a rappresentare l’Italia degli italiani di buona volontà, l’Italia degli italiani di buon senso, l’Italia degli italiani di buona fede. L’Italia che lavora e che produce, l’Italia delle donne e degli uomini liberi che vogliono restare liberi. Siamo il Popolo della Libertà. Siamo noi il Popolo della Libertà, e abbiamo come religione la libertà, abbiamo come prima e assoluta missione la difesa della libertà. E anche per questo siamo qui oggi, tutti insieme, ad esercitare un nostro assoluto diritto, garantito da tutte le democrazie, quello di manifestare in piazza per protestare contro ciò che non ci piace, che non ci pare giusto, che non accettiamo, o a favore di ciò che vogliamo e che ci appare sacrosanto.
Ci avevano dati per agonizzanti, invece ecco qui sotto un sole caldo di primavera e in una delle piazze più belle del mondo: un popolo che combatte contro la crisi economica e sociale; un popolo che sa amare, sa ammirare, sa creare, e rinnega nella vita di ogni giorno la logica dell’invidia e della rabbia. Noi siamo l’Italia della passione, che si batte per le proprie idee nelle piazze come nelle istituzioni, nel lavoro quotidiano, nell’impresa. Siamo anche quelli che sanno ridere e sorridere, che sanno combattere la malinconia di una crisi mondiale grave e duratura con la logica dell’intelligenza, e con la volontà dell’ottimismo e della speranza. Davvero, siamo tantissimi…Lo sapete che non avevo mai visto tanti “impresentabili” tutti insieme? Ci dicono che siamo impresentabili, ineleggibili, collusi, in realtà noi siamo l’Italia migliore e siamo anche la maggioranza dell’Italia , siamo tantissimi. Prima di ogni cosa, credo che dobbiamo mandare un saluto e un abbraccio, ai nostri due Marò, a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che il Governo Monti ha pensato bene, dopo tante parole, di rispedire in India. E’ una cosa grave e incredibile: un grande Paese non deve questo, non può abbandonare i suoi uomini. E noi non possiamo consentire che l’Italia sia umiliata e ridicolizzata. E non possiamo consentire che ciò avvenga da parte di chi – come Monti – raccontava di avere ridato credibilità al nostro Paese. Domandiamo ai signori del Governo Monti: questa è la vostra credibilità? Quella della loro credibilità era una grande balla. La balla del secolo. Non sono mai stati più credibili di noi, semmai erano e sono stati sempre supini alla Germania e agli altri Paesi e ora anche all’India. Allora, come voi sapete bene in questi giorni c’è stato un giro di consultazioni con le forze politiche, e verrò tra poco alle mie osservazioni sull’incarico precario che è stato dato ieri al signor Bersani. Ma prima, volevo fare anch’io le mie consultazioni, chiedendo subito un parere a voi, perché il vostro è il parere che mi importa.
Vi domando: Siete contenti della campagna elettorale che abbiamo fatto? Siete orgogliosi di come io mi sono battuto nelle piazze e nelle sfide televisive? Da Santo? Da Floris? Dalla Annunziata? Dalla Gruber? Sapete, c’è qualcuno che mi dice che non devo più chiamarli comunisti, ma non è colpa mia…Non sono io che vedo comunisti da tutte le parti: sono loro che sono comunisti e stanno da tutte le parti…E infatti, andando negli studi televisivi, ho visto così tanti comunisti che mi sono venuti gli occhi rossi e pure la congiuntivite… Ancora Siete soddisfatti della nostra fantastica della nostra rimonta in campagna elettorale? Pensate che un grande Paese come l’Italia possa essere governato senza numeri da vecchi militanti di quel Pci, che è diventato Pds, che è diventato Ds, che è diventato Pd, ma che non è cambiato mai? Siete convinti che, se tornasse al voto, vinceremmo noi, sia alla Camera che al Senato? Allora siete pronti a tornare in campagna elettorale per dare all’Italia un Governo solido, capace e liberale? E ma allora Se siete tutti pronti, allora Vi comunico chesono pronto anch’io…Sì, sono pronto anch’io a combattere insieme a voi una grande battaglia per la libertà e per una nuova Italia. Parliamo un pò degli altri Ma l’avete visto in questi giorni Bersani? Prima del voto, era convinto di avere già vinto senza gareggiare. Aveva in mano da due mesi la lista dei ministri, con Rosy Bindi in testa. Diceva che era in vantaggio di 12 punti, diceva che la nostra rimonta era falsa e che gli serviva il binocolo per vederci. Adesso è trascorso un mese dal voto, e nessuno ha avuto ancora il coraggio di dirgli che le elezioni non le ha vinte. Oddio, qualche sospetto ce lo deve avere anche lui. Ha la faccia di uno che ha cercato di smacchiare un giaguaro e il giaguaro lo ha ridotto male molto male…Ma ci sono anche altri che stanno combinati anche peggio.
Lo vogliamo mandare tutti insieme un saluto a Gianfranco Fini? Devo dire che la vostra è una reazione rozza ed efficace quindi mandiamo a lui e a tutto il suo che dopo “soli” 30 anni lascia il Parlamento? Un saluto a lui e a tutto il suo club di gentiluomini…Ma poi guardate che in fondo, credo che a Montecarlo non se la passi così male… Un saluto anche a Casini, che tutte le sere ci spiegava in tv che eravamo noi a sbagliare, che non capivamo il Paese, che la soluzione era Monti. Vi diciamo Caro Pierferdinando, bisogna saper ascoltare la gente. E se tu avessi ascoltato la tua gente, avresti capito che non dovevi dividere lo schieramento dei moderati alternativi alla sinistra, e fare così l’interesse della sinistra… E un nostro vero rammarico è proprio questo: come hai potuto fare un errore così grave contro i tuoi elettori e anche contro te stesso? Come hai potuto non vedere cosa sarebbe successo? E poi un saluto a Di Pietro…Avevamo sostenuto per anni che le sue erano braccia rubate all’agricoltura…Ora possiamo finalmente restituirlo all’agricoltura, sperando che non faccia troppi danni anche lì. E poi ve lo ricordate Ingroia, l’eroe del Guatemala? A proposito…Ci sono in piazza amici della Valle d’Aosta? Dove siete? Eccoli là…Allora, vi do una notizia…Visto che Ingroia ha perso le elezioni e vuole tornare in magistratura, ma siccome si era candidato in tutta Italia tranne la vostra Regione, hanno pensato bene di mandarlo da voi in Valle d’Aosta…Ho un’indiscrezione sulla prima inchiesta che farà: sarà sugli stambecchi del Parco del Gran Paradiso…Ha già un sacco di intercettazioni, e ha anche uno stambecco pentito che ha rilasciato le prime confessioni…Presto sarà intervistato da Santoro e Travaglio…Sia lui, sia lo stambecco…
E poi un saluto a Grillo, che ieri è andato da Napolitano travestito da dittatore dello Stato libero di Bananas…Lo sapete che cosa combina oggi? Una bella visita ai cantieri dell’alta velocità accompagnato da un po’ di distinti signori amici suoi (anarchici, no-Tav, centri sociali …). Intanto, è un primo atto da onorevoli, perché vanno lì come parlamentari, e sfruttando un privilegio da parlamentari…Vorrei chiedere a Bersani: ma che fai? I nuovi ministri delle infrastrutture e magari anche degli interni li scegli tra quei gruppettari là? E’ così che pensi di guidare e governare uno dei Paesi più importanti del mondo?
Fatti questi doverosi “saluti”, vengo alle cose importanti su cui dobbiamo ragionare insieme. Siamo qui e cominciamo con una denuncia e una proposta. La denuncia politica riguarda la sinistra, che, forte della sua antica professionalità nelle sezioni e negli scrutinii elettorali, si è guadagnata uno 0.3% in più di voti, e, con questo 0.3, ha osato mettere le mani sulle Presidenze di Camera e Senato come se le istituzioni fossero tutte quante “cosa loro”. E ora puntano a fare lo stesso con la Presidenza della Repubblica. Dico qui, forte e chiaro, che sarebbe una specie di golpe, che sarebbe un atto ostile contro metà e oltre del Paese. Bersani aveva detto prima del voto: se anche prendessi il 51%, mi comporterei come se avessi preso il 49%. Bene, non ha preso né il 51 né il 49, ma solo il 29, eppure si vuole sequestrare il 100% delle cariche istituzionali. E’ inaccettabile. E’ inaccettabile che l’Italia sia uno dei pochissimi Paesi occidentali dove la massima carica dello Stato sia decisa, nel chiuso di qualche stanza buia e fumosa, da tre o quattro capipartito, alle spalle degli elettori. Il Capo dello Stato non lo possono decidere Bersani, Vendola e Monti riuniti a casa loro, magari indicando Romano Prodi. Un Presidente tutto meno che superpartes. Lo volete uno come Prodi? Il Capo dello Stato lo dovrebbero decidere 50 milioni di italiani, democraticamente, al termine di una campagna elettorale aperta, libera e trasparente. Per questo noi proponiamo (e nella scorsa legislatura siamo riusciti a far approvare questa riforma solo al Senato, purtroppo), che si passi all’elezione popolare diretta del Capo dello Stato, come accade in America o in Francia. Ma anche ora in attesa di questa riforma non è assolutamente pensabile che, con un colpo di mano, sempre aggrappandosi allo 0,3% di cui parlavo prima, questi signori pensino di imporci uno di loro, magari uno dei più estremisti di loro, per 7 anni.
Questa volta, con il Presidente del Senato di sinistra, con il Presidente della Camera di sinistra, con il Presidente del Consiglio di sinistra, il Capo dello Stato deve essere un moderato, un liberale di centrodestra! Questo è un sacrosanto diritto dei 10 milioni di italiani che noi rappresentiamo e che non possono essere esclusi da tutte le più alte istituzioni. La seconda questione è la più importante. Vedete, io ho fatto la campagna elettorale pensando ai problemi veri degli italiani: fermare il bombardamento di tasse; creare le condizioni per avere nuovi posti di lavoro; fermare il mostro chiamato Equitalia; abolire l’Imu per il futuro e restituirla per il passato. Bene, un minuto dopo il voto, questi signori hanno fatto sparire queste questioni reali, e hanno messo sul tavolo questioni che non hanno nulla a che fare con le emergenze del Paese: il conflitto di interessi; la legge anticorruzione; il falso in bilancio; la caccia alle poltrone istituzionali di cui ho detto poco fa e perfino, roba da matti, la questione lunare della mia presunta ineleggibilità, cosa con la quale vorrebbero provare a mettere fuori gioco il leader di 10 milioni di italiani, eletto 6 volte al Parlamento, e già 4 volte Presidente del Consiglio.
Sono irresponsabili. Sono fuori dalla realtà perché non sanno ascoltare la sofferenza del Paese. Non capiscono il dramma degli imprenditori. Non capiscono il dramma dei disoccupati, con i livelli record della disoccupazione, in particolare di quella giovanile. Non capiscono l’incubo di chi riceve lettere e cartelle minacciose da parte dell’Agenzia delle Entrate. Non capiscono il dramma di chi vuole fare impresa e deve fare i conti con una burocrazia oppressiva, che toglie tempo e risorse, che ti fa andar via la voglia di realizzare qualcosa di nuovo. Vi sembra normale? In un mese dopo il voto, avete mai sentito Bersani pronunciare la parola “crescita”? La parola “sviluppo”? Niente di niente, come se il problema fosse solo quello di togliere di mezzo il signor Berlusconi. Scherzano con il fuoco, e non capiscono che poi, perfino per un grande Paese come il nostro, possono materializzarsi rischi gravi, magari anche scenari pericolosissimi per il risparmio privato delle famiglie, come sta accadendo a Cipro. E ora si aggiunge, in questo contesto, l’altro marziano, Grillo, che parla di “decrescita felice”. Ma, ditemi voi: avete mai visto qualcuno che si impoverisce ed è felice? Qualcuno che sorride mentre perde il suo lavoro, il suo risparmio, la sua dignità? Che poi, detta da uno come Grillo che non vive certo di stenti, la cosa sa anche di grande presa in giro e di offesa agli italiani…
E ciò nonostante, Bersani lo insegue, lo prega, gli va appresso, e tenta con i voti dei grillini di mettere insieme i numeri che non ha… Direte voi: si tratta di una orribile compravendita di parlamentari…No: si chiama scouting. Direte voi: si tratta di un ribaltone antidemocratico…No: si chiama scouting. Direte voi: ma come, Bersani si esprime sempre in un emiliano simpatico e verace? Noooo! Bersani si è internazionalizzato, è diventato English, è diventato British, e parla di scouting con una pronuncia ineccepibile.
Mamma mia, se ripenso a tutto quello che ci hanno riversato contro quando qualche parlamentare del gruppo misto è venuto da noi! No, sono davvero degli ipocriti, sono sepolcri imbiancati. Se e quando alcuni deputati hanno deciso liberamente di passare con il centrodestra, loro ci hanno accusato di compravendita, se invece passano a sinistra per eleggere il Presidente del Senato e magari far nascere il governo Bersani allora per loro si tratta di “scouting”. Vedete che ho ragione io, sono sempre gli stessi, è la doppia morale comunista. A questo punto, voglio essere molto chiaro, ribadendo la mia fiducia nella saggezza e nell’equilibrio del Presidente Napolitano. Delle due l’una. Se per caso, dopo l’incarico precario ricevuto ieri sera, Bersani e il Pd insisteranno con questo tentativo assurdo di Governo senza numeri, di Governo di minoranza, sappiano che la nostra opposizione sarà durissima, senza sconti, in Parlamento e nelle piazze, in mezzo alla gente che soffre per la crisi che loro non vedono. Se invece non combineranno nulla, se non ci riusciranno, allora l’essenziale è che non facciano perdere tempo al Paese, che non facciano melina. Si torni subito al voto, e si restituisca la parola agli italiani. Noi siamo assolutamente pronti.
Bersani sta ripetendo l’errore-orrore di Monti: pensare al suo interesse e alla sua salvezza e non all’interesse e alla salvezza del Paese. Dice “no” a un patto con noi: l’unica soluzione che le urne hanno indicato come possibile. Il Pd invece è da sempre e ancora accecato dall’invidia e dall’odio contro di noi, contro il ceto medio, contro i cosiddetti benestanti, contro chi con il lavoro, con il sacrificio, con il rischio imprenditoriale è riuscito a crearsi una piattaforma di benessere per sé e per i suoi figli. A loro non importa che le fabbriche, piccole e medie imprese e negozi chiudano in massa. Che ci siano tre milioni di disoccupati. Che tre milioni e mezzo di italiani siano nella miseria assoluta. Che sette milioni di italiani siano sulla soglia della povertà. Che i pensionati non arrivino alla seconda settimana del mese. Che 40 giovani su 100 non abbiano lavoro e che in tanti abbandonino l’Italia perché hanno perso ogni speranza. A loro non importa che le famiglie siano oppresse dalle tasse e dagli aumenti delle bollette. Che i contribuenti siano vessati da Equitalia che si comporta con loro come il rappresentante di uno Stato ostile e nemico. Che le imprese siano prigioniere di una camicia di forza costituita da tutti i vincoli e le autorizzazioni preventive della burocrazia che non le lascia operare. Che le banche prestino soldi alle imprese con sempre maggiore difficoltà perché hanno subito un incremento pericoloso del totale dei crediti irrecuperabili. Che la produzione industriale e i consumi siano caduti ai livelli di 20 anni fa. Che il debito pubblico superi i duemila miliardi. Che gli investimenti esteri in Italia siano ridotti al lumicino. Per loro, per questi marziani irresponsabili spinti solo dal desiderio di potere, dall’invidia e dall’odio sociale i problemi urgentissimi, non più rinviabili del nostro paese, sono altri, sono il conflitto di interesse, il falso in bilancio, la legge anticorruzione pensando così di colpire il nemico Berlusconi.
Le facciano pure queste leggi. Il loro problema è quello di aumentare l’Iva sui prodotti di lusso per i ricchi e di togliere l’Imu solo a chi ha pagato sino a 500 euro e così moltiplicarla per quattro a tutti gli altri e – perché no – fare anche una bella patrimoniale, di 40 miliardi che sul piano economico è impossibile, ma e’ così demagogica e fa tanto chic. Il problema è quello di tenersi ben strette le banche, come hanno fatto egregiamente da sempre col Montepaschi, e semmai, notte tempo, assottigliare i conti correnti degli italiani con un prelievo forzoso. Ma tutto questo si può fare solo togliendo prima di mezzo Berlusconi che ai loro occhi ha una grande colpa, un grande torto, quello di non aver consentito da 20 anni a questa parte a loro, ad una minoranza illiberale e prepotente di prendere il potere e fare il bello e il cattivo tempo. Ancora tre mesi fa pensavano che i giochi fossero fatti: hanno sottovalutato la forza di questo popolo, la forza del Popolo delle Libertà, la forza dei nostri ideali, dei nostri programmi: e, se permettete, anche del suo leader e si sono messi a giocare con le figurine: qui ci mettiamo questo, qui ci mettiamo quello, questo ministero a lui, questa banca a te, quell’authority a me, e così via: dai provveditori agli studi, agli ambasciatori, ai direttori generali dei ministeri, dalle grandi aziende di stato, ai vertici delle forze dell’ordine e delle forze armate, dovunque perché questo è il potere che amano e che vogliono. Erano pronti alla grande abbuffata. Poi si sono svegliati e sono caduti dal letto. Accecati dalla loro sete di potere, non si erano neppure accorti che al loro fianco cresceva una forza, il Movimento 5 stelle, che si alimentava col malcontento popolare, agitando slogan semplici e demagogici: un vaffa…. per tutti, No alla Tav, No di qui, No di là, e altre amenità che hanno fatto facilmente presa, perché era ed è protesta allo stato puro, senza alcuna proposta seria per rilanciare l’Italia. Tanto è vero che, incamerati tantissimi voti, l’unica cosa che Grillo non vuole, per ora, è governare, perché punta al 100 per 100 per guidare un governo monocolore e lo dichiara pure al Capo dello Stato… Vi ricorda qualcosa?
In questa situazione Bersani che fa? Si rivolge a chi è responsabile, a chi rappresenta l’Italia che lavora, a chi ha dato infinite prove di serietà e di capacità, cioè alla forza dei moderati, a noi, al Popolo della Libertà? No, nemmeno per sogno. Si rivolge proprio a Grillo, che per tutta risposta dice no, lo sbeffeggia e lo manda a quel paese 3-4 volte al giorno. Bersani allora decide – come dicevo – di fare “scouting”, spera che questi turisti della politica nell’albergo a 5 stelle, questi ospiti improvvisati della politica, che vengono in massa dalla sinistra, scappino di mano a Grillo e possano dargli i numeri per far nascere un esecutivo che avrà come primi obiettivi quelli che abbiamo visto prima, e già che ci siamo, magari dichiarare ineleggibile Berlusconi che è la trovata degli ultimi giorni. Dopo la catastrofe Monti, noi abbiamo messo a punto un programma di riforme e di grande rilancio dell’economia, con al primo posto l’abbassamento della pressione fiscale che è insopportabile sulle famiglie e sulle imprese. La nostra ricetta liberale per uscire dalla recessione e rilanciare l’economia. E’ una ricetta che ha sempre funzionato e che in sintesi dice: Meno tasse sulle famiglie, sulle imprese, sul lavoro producono più consumi, più produzione, più posti di lavoro con la conseguenza di maggiori entrate nelle casse dello Stato che recupera così quanto serve per aiutare chi è rimasto indietro. Non ci sono altre soluzioni per l’Italia. Altrimenti non c’è che il voto.
Intanto una cosa è certa: tutti i temi che abbiamo affrontato nella campagna elettorale sono diventate altrettante proposte di legge, che stiamo per depositare alla Camera e al Senato. Già martedì prossimo, a Montecitorio e a Palazzo Madama, depositeremo le prime quattro proposte: per la detassazione totale delle nuove assunzioni, a favore di giovani o di disoccupati; per il pagamento dei debiti dello Stato verso le imprese; per l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e sui terreni agricoli, e per il rimborso dell’Imu pagata nel 2012; per una radicale revisione dei poteri del mostro chiamato Equitalia. Se fossimo stati, o se fossimo al Governo, avremmo fatto esattamente le stesse cose. Per noi, i temi centrali sono e restano quelli che importano davvero agli italiani, alle famiglie e alle imprese. Gli altri chiacchierano, noi continuiamo a lavorare per il grande cambiamento.
Noi, diversamente dagli altri, non abbiamo dovuto cambiare idee e obiettivi. Per noi resta decisivo sconfiggere le tre oppressioni: l’oppressione fiscale, l’oppressione burocratica, l’oppressione giudiziaria. Dell’oppressione fiscale, abbiamo già detto, ma voglio aggiungere qualcosa. Con pazienza, per mesi, abbiamo cercato di limitare l’effetto debilitante delle politiche fiscali negative di Monti, che non condividevamo, e alla fine abbiamo suonato lo squillo di tromba della riscossa: sfido chiunque a dimostrare che questo squillo non sia stato udito in ogni parte d’Italia e che non sia risultato per molti milioni di italiani un discorso liberatorio, lucido e rigorosamente costruito nell’interesse del paese che tutti amiamo. Le banche devono riprendere a erogare il credito. La pubblica amministrazione deve onorare i suoi debiti con sollecitudine. La domanda interna di beni e servizi deve crescere rigogliosamente. Lo Stato deve fare un passo indietro abbassando il carico fiscale abnorme che impone su cittadini, imprese e lavoro. Le sole esportazioni, che sono una delle maggiori glorie della nostra capacità di crescere, non bastano a rimettere in moto il Paese.
L’Europa della moneta unica non è nostra nemica. Nostro avversario è l’egoismo dei poteri nazionali, la boria di chi si sente egemone e non riesce a ragionare in una logica cooperativa e davvero sopranazionale. Noi italiani siamo un pilastro, con francesi e tedeschi, della costruzione europea, e abbiamo tutta l’autorità per rivendicare con fermezza la ripresa di politiche espansive, la rimobilitazione di capitali, di lavoro e di tecnologie allo scopo di aumentare il prodotto e la ricchezza sociale che si producono nell’area dell’euro. Noi avvertimmo per primi i rischi per la bassa produttività, per l’economia stagnante, per l’incapacità di stimolare, anzi di frustare, il cavallo dell’economia in Italia e in Europa. Non siamo stati ascoltati. Un presidente del Consiglio ha poteri limitati. In certi casi può soltanto denunciare, dire le cose come stanno, ma le leve operative gli sfuggono. Soprattutto se ha una maggioranza ristretta o, comunque, un fronte di opposizione che è fatto non tanto dai partiti che hanno perso le elezioni quanto da magistrati, mass media e lobby influenti interne ed estere. Quanto all’oppressione burocratica, siamo qui per affermare la necessità della riduzione della macchina dello Stato. Una macchina che non soltanto costa ad ogni cittadino italiano il 30% in più di quel che costano gli altri Stati ai loro cittadini, ma che ci impedisce di intraprendere, di lavorare, di sentirci liberi cittadini di uno Stato che ci garantisce e ci protegge, invece che cittadini di uno Stato che ci è ostile o addirittura nemico.
Ma siamo qui anche per dire basta all’uso della giustizia come arma contro gli avversari politici. I magistrati non devono soltanto essere imparziali, devono anche apparire imparziali. Per questo vogliamo affermare il diritto di un cittadino e ancor più di chi è stato eletto dal popolo a chiedere e a ottenere la revoca e la sostituzione di un PM o di un giudice che militi in una corrente della magistratura ideologizzata e politicizzata, che lo considera un nemico politico e usa contro di lui l’arma della Giustizia per combatterlo e danneggiarlo. Oggi non voglio parlarvi delle assurde vicende giudiziarie di cui sono oggetto, perché tutto il tempo deve essere dedicato ai vostri problemi, ai problemi dell’Italia, mentre una sinistra irresponsabile gioca con le sorti del Paese. Però lasciatemi dire che solo io potevo resistere a tutte le false accuse e a tutto il fango che mi è stato gettato addosso in questi anni; solo io potevo resistere al dolore che queste vicende provocano e alle straordinarie spese sostenere. La riforma della giustizia deve essere fatta per tutti i cittadini. Perché non accada a nessuno ciò che è accaduto a me in questi anni.
Intercettazioni, perquisizioni, visite fiscali, testimoni intimiditi e maltrattati, migliaia di udienze fissate anche di sabato in Tribunali deserti. Le nostre leggi, i disegni di legge che depositeremo sono per voi, per tutti i cittadini per difendervi e per rafforzare la magistratura sana che ogni giorno rende un grande servizio al Paese. Noi non vogliamo una magistratura che sia succube della politica. La magistratura deve essere libera. Ma libertà non significa arbitrio. La magistratura non deve essere al di sopra del popolo ma deve dispensare giustizia in nome del popolo. Non può, senza mandato popolare, far cadere governi o decidere le leggi che il Parlamento deve approvare o non approvare. Quando un magistrato decide di fare politica tramite il suo ruolo, utilizzando la toga che indossa, è un fatto gravissimo che incide sulla libertà di tutti noi. È come se l’arbitro di una partita di calcio fosse un giocatore di una delle due squadre in campo.
Ciascuno di voi ben comprende come in tal modo la partita venga falsata e la sconfitta dell’altra squadra sia più che sicura. È contro questa situazione che noi dobbiamo impegnarci.
Vedete, qualcuno parla di Berlusconismo, qualcun altro ha detto che Silvio Berlusconi non è più solo il nome di una persona, ma è il nome di una storia. Permettetemi di dirlo: la nostra storia. E’ il nome di chi ha avuto la forza e il coraggio di contrapporsi a una sinistra illiberale, che concepisce solo la demonizzazione dei suoi avversari, e la loro eliminazione politica o addirittura fisica. E’ il nome di chi ha voluto e saputo aggregare la maggioranza degli italiani che non vogliono questa sinistra, unendo i cattolici e i laici, i liberali, i riformatori, i modernizzatori, tutti i cittadini che vogliono il cambiamento.
E’ il nome di chi non si è arreso alle aggressioni, ma ha risposto moltiplicando ad ogni agguato l’amore per la democrazia e la passione per la libertà. E’ il nome di un italiano che non ha paura, che non si è fatto e non si farà intimidire, e che tanti italiani hanno riconosciuto e riconoscono come guida in una battaglia nell’interesse di tutti. Questo italiano è qui davanti a voi, e si impegna a continuare la sua storia insieme alla vostra. Siamo qui, più forti di prima e, ringraziando il cielo, siamo diversi da loro, che sanno solo invidiare e disprezzare, che hanno perso la speranza e gli ideali, e sono posseduti da una forza che è solo negativa e distruttiva. Ma il nostro amore e le nostre convinzioni, le nostre idee e le nostre speranze, sono più forti del loro odio. Non riusciranno a toglierci la parola, il pensiero, il legame che ci unisce a milioni di altre donne e uomini che condividono la nostra stessa passione per la libertà. C’è una frase di Gandhi che mi ha commosso: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci». Sono sicuro che sarà così anche per noi.
Lotteremo in Parlamento per difendere il voto di 10 milioni di italiani. Ma saremo anche nelle piazze, nelle strade, con la gente. E oggi, da questa piazza, vogliamo dare inizio a un nuovo modo di fare politica, per far vivere insieme la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta, il Parlamento e la partecipazione. Siamo donne e uomini responsabili. Ma non possiamo accettare che la democrazia e la libertà siano calpestate da chi vorrebbe annientare gli avversari politici per via giudiziaria. Non possiamo accettare che la democrazia e la libertà siano calpestate da chi vorrebbe cancellare il voto e i diritti fondamentali di un terzo degli italiani. Noi non lo consentiremo. Sentiamo parlare di vecchie alchimie e di doppi binari, magari per conquistare anche la Presidenza della Repubblica. Non ci stiamo. O si fa un governo forte che coinvolge in un momento così grave tutte le forze politiche responsabili nell’interesse del Paese, oppure si va al voto. Non ci sono alternative. In ogni caso noi saremo in campo e ci impegneremo con rinnovata energia, con la stessa passione di sempre e ancora di più, con la nostra inestinguibile voglia di lottare per la libertà. Forza Italia, viva l’Italia, viva la Libertà. Vi abbraccio uno ad uno.
Oggi il governo che ho l’onore di presiedere si rivolge al Parlamento, che è il luogo in cui la sovranità popolare trova la sua più alta espressione ed il suo più alto esercizio. La democrazia nasce con le libere elezioni, e vive con i parlamenti. Non vi può essere né autentica democrazia, né buongoverno, se il parlamento non è libero e forte.
I governi democratici traggono la loro capacità di agire per il bene della nazione dal consenso sempre rinnovato dei rappresentati del popolo. Tra parlamento e governo non vi può mai essere contrapposizione, ma vi deve essere un’armonica simbiosi, nella distinzione dei ruoli e delle funzioni che la nostra Carta costituzionale assegna ad ognuno.
Questa è la mia profonda convinzione, questo è lo spirito con il quale mi rivolgo ad ognuno di voi.
Nel maggio di due anni fa, nel chiedervi il voto per la fiducia al nuovo governo, affermai che il lavoro che ci aspettava per ridare slancio all'Italia richiedeva ottimismo e determinazione.
Avevo visto bene. In virtù della netta espressione della volontà popolare del 2008, per l’Italia si apriva finalmente una stagione di grandi speranze e di auspicate e necessarie riforme. Gli elettori hanno raccolto e premiato il nostro comune appello a rendere più chiaro il panorama politico, a rendere più stabile e più efficiente il governo del Paese. Con il voto del 2008 è stata ridotta drasticamente la frammentazione politica, è stata scelta con nettezza una maggioranza di governo e un’opposizione, ciascuna con la propria leadership.
Più del 70 per cento dei suffragi si è infatti concentrato sui due maggiori partiti, il Popolo della libertà e il Partito Democratico. Si è trattato della prima grande riforma voluta e certificata dal popolo nel segno di un bipolarismo maturo, con il riconoscimento reciproco tra avversari e teso a mandare definitivamente in archivio le pratiche della vecchia politica. Sia il mio discorso di presentazione del Governo alle Camere, sia il discorso del leader dell'opposizione, pur nelle fisiologiche e necessarie distinzioni, ebbero un comune denominatore: quello della responsabilità di fronte all'Italia e agli italiani. Si apriva un varco per quello spirito riformatore più volte auspicato in questi anni anche dal Capo dello Stato.
L’allora leader del Partito democratico, onorevole Veltroni, citò una riflessione di uno dei Padri Costituenti, Piero Calamandrei, che personalmente condivido in tutte le sue parti, mentre altri ne ricordano sovente soltanto la prima. Diceva Calamandrei: “Il regime parlamentare non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza. Quest'ultima, a sua volta, deve avere rispetto per la legittimità elettorale della maggioranza e la legittimità costituzionale del Governo”.
Da qui, credo, si dovrebbe ripartire per dare un senso compiuto a questa legislatura che, negli auspici di molti, era considerata "costituente". E dovremmo farlo senza compromessi al ribasso, assumendoci ciascuno la nostra parte di responsabilità, praticando il rispetto dell’avversario al posto della faziosità. Lo dissi il 25 aprile 2009 ad Onna, martoriata dal terremoto e ancora memore dell’eccidio nazista, e lo ripeto oggi. Dovremmo lasciarci definitivamente alle spalle i residui di una Guerra Fredda che ancora oggi divide troppo spesso il Paese in schieramenti ideologici e non in legittime contrapposizioni democratiche. Questo purtroppo non è successo. L’Italia, unico Paese d’Occidente, sembra rimanere vittima di un passato che non passa. C'è stata invece un'opposizione preconcetta e distruttiva, che qualche forza politica ha spinto fino al linguaggio intriso di odio continuo, sistematico e violento.
In giro vedo, e sento, ancora troppo odio, e la storia – anche quella recente - ci ha insegnato che spesso l'odio ha armato la mano dell'eversione. E poiché i segnali di intolleranza politica o addirittura di violenza si sono moltiplicati negli ultimi mesi, tutti dovremmo esserne consapevoli e preoccupati. E' assolutamente, assolutamente indispensabile dunque, ritessere il filo della coesione nazionale. Siamo chiamati tutti a obbedire all’imperativo del bene comune che dà nobiltà alla politica e toglie legittimità ai rancori personali. Ho apprezzato lo spirito unitario con cui questo Parlamento ha dato sempre unanime sostegno ai militari impegnati nelle missioni all'estero, che sono il fiore dell'Italia migliore. Sento il dovere di rivolgere un commosso saluto al tenente Alessandro Romani, la trentesima vittima italiana in Afghanistan, dove i nostri soldati stanno tenendo alta con eroismo e grande professionalità la nostra bandiera e la bandiera della libertà di tutti i popoli che vogliono vivere in pace e in democrazia. A loro va il nostro sostegno, la nostra solidarietà, il nostro ringraziamento.
E’ necessario guardare avanti con realismo e con saggezza. A questo fine dopo un breve accenno ai risultati dell’azione del governo in questi primi due anni, mi soffermerò sui principali obiettivi che intendiamo realizzare nella restante parte della legislatura. Lo farò senza eludere i nodi politici che, a mio avviso, hanno determinato l’attuale situazione e senza esimermi dall’affrontare le ragioni che hanno concorso a produrre una lesione nei rapporti interni alla maggioranza che nel 2008 ha ricevuto dagli elettori il mandato di governare. Partirò dunque dal rendiconto di ciò che abbiamo fatto. Credo si debba oggettivamente formulare un giudizio largamente positivo su ciò che il governo ha realizzato nel corso di questi primi due anni, a cominciare dai risultati ottenuti sul fronte della crisi economica. Avevamo avvertito, già durante la campagna elettorale, che si annunciavano tempi difficili anche per la nostra economia. Non ci siamo trovati dunque impreparati di fronte al precipitare della crisi. Nessuno tuttavia poteva pensare che essa sarebbe stata così grave e così profonda.
Ho ripetuto più volte e lo ribadisco anche oggi, che l’Italia pur partendo da gravi difficoltà, a cominciare dal suo enorme debito pubblico, ha affrontato questa crisi attraverso misure e provvedimenti che sono stati giudicati efficaci da tutti gli organismi internazionali. Potrei anche dire che ha affrontato la crisi meglio di altri Paesi. Non è solo per merito del governo. Se questo è avvenuto lo si deve a tanti fattori, fra cui il modello economico italiano fondato sul tessuto delle piccole e piccolissime imprese, fondato sul ruolo sociale svolto dalle famiglie e da una rete di oltre 8000 comuni, fondato su un sistema bancario reso sano e solido dalla alta propensione al risparmio degli italiani, e assistito da un modello di garanzie e ammortizzatori sociali che ha retto bene di fronte alla crisi di molte aziende. Il governo ha il merito di avere sostenuto questa realtà positiva, e di non aver compiuto l’errore, che molti governi invece hanno commesso, di aumentare in deficit la spesa pubblica, nell’illusione che l’aumento della domanda avrebbe fatto ripartire l’economia. L’Italia aveva bisogno di rigore e credibilità. Lo abbiamo fatto tenendo in ordine i conti pubblici e nello stesso tempo salvaguardando i redditi delle famiglie e dei lavoratori colpiti dalla crisi.
E’ stata la scelta giusta. Ha consentito di superare la crisi e di non farci trovare nelle condizioni in cui si sono trovati altri Paesi europei alle prese con deficit pubblici giudicati non sostenibili dai mercati finanziari e quindi esposti ad attacchi speculativi. Abbiamo evitato licenziamenti di massa e, con essi, il depauperamento del capitale umano delle nostre imprese. Abbiamo tutelato i lavoratori maggiormente colpiti dalla crisi ampliando e rendendo più flessibile lo strumento della cassa integrazione. Abbiamo esteso le garanzie previste dagli ammortizzatori sociali ai lavoratori subordinati sospesi dal lavoro per crisi aziendali ed anche a quei lavoratori che fino ad allora non erano tutelati come gli apprendisti, gli interinali e i lavoratori a domicilio. Voglio anche ricordare che in occasione della drammatica crisi che ha colpito la Grecia, e che poteva coinvolgere gravemente l’euro, il nostro Paese ha saputo svolgere una funzione decisiva a difesa della stabilità della moneta europea e della sua stessa costruzione.
In questa circostanza, è emersa con chiarezza la necessità di rafforzare l’unità politica dell’Europa, a partire da una politica economica comune, da una politica estera comune e da una comune politica della difesa europea.
Il governo ha ottenuto in questi due anni risultati certamente positivi anche in altri ambiti: dalla lotta alla criminalità organizzata, al controllo dell’immigrazione clandestina, dalla risposta immediata ed efficace ad ogni emergenza, alla gestione di tante crisi aziendali, dalla riforma della pubblica amministrazione e della sua digitalizzazione a quella della scuola e dell’università, dal varo di un piano per l’energia nucleare all’avvio del federalismo, dalla riforma delle politiche di bilancio alla tanto attesa riforma delle public utilities, dalla semplificazione normativa e amministrativa alla riforma delle pensioni e all’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Questi sono alcuni dei successi più evidenti conseguiti dal nostro Governo.
Per quanto riguarda la politica estera possiamo dire con orgoglio che l’Italia, finalmente, svolge un ruolo da protagonista sulla scena internazionale dimostrandosi punto di riferimento per le regioni di crisi e di tensione.
Oltre a una intensa attività prettamente diplomatica, è stata attuata una precisa strategia di diplomazia commerciale che ha accompagnato le aziende italiane sui mercati internazionali e ha creato importanti opportunità di forniture e di lavoro. Operiamo per garantire la sicurezza globale, europea ed atlantica, sostenendo attivamente i processi di disarmo e non proliferazione in ogni regione del mondo. Vorrei citare non solo la rivitalizzazione del processo di Pratica di Mare ma anche e soprattutto l’incoraggiamento nei confronti dell’amministrazione americana e della amministrazione russa a riprendere le relazioni che si erano pericolosamente affievolite negli ultimi mesi della amministrazione repubblicana al fine di pervenire alla firma del nuovo trattato START per la riduzione degli arsenali nucleari.
Innanzi alle Nazioni Unite l’Italia si è qualificata per una decisa azione per la difesa della vita, della libertà religiosa e di coscienza e la difesa dei diritti delle donne come fondamentali tra i diritti umani. La centralità della persona e la difesa del valore della vita rappresentano, d’altro canto, un fondamentale asse di orientamento della nostra azione di governo. Crediamo che sia arrivato anche il momento di dare attuazione all’agenda bioetica e al “piano per la vita” perché il nostro Paese deve saper guardare al futuro e non c’è mai vero e duraturo sviluppo economico se non c’è sviluppo demografico, speranza e voglia di costruire il domani per i nostri figli.
Onorevoli colleghi, veniamo ai cinque punti del programma: il federalismo fiscale, la riforma tributaria, la riforma della giustizia, la sicurezza dei cittadini e l’immigrazione e infine, da ultimo ma non in ordine di importanza, il piano per il Sud.
Federalismo fiscale
Il federalismo fiscale è stato votato nel suo percorso parlamentare non solo dalla maggioranza, ma anche da quasi tutte le forze di opposizione, e non prevede la benché minima ipotesi di divaricazione tra Nord e Sud d'Italia. E' vero semmai il contrario, perché il federalismo rigoroso e solidale, a regime, sarà la cerniera unificante del Paese, e un vantaggio per tutte le aree dell’Italia, soprattutto per il Mezzogiorno. Oramai è infatti dimostrato in ogni nazione moderna come l’attuazione di un vero, moderno federalismo rafforzi le ragioni dello stare insieme nella collettività nazionale. Il principio di sussidiarietà, sul quale si basa il nostro ideale federale di Popolari europei, è d’altronde il principio ispiratore delle grandi aggregazioni fra i popoli della nostra epoca, prima fra tutte l’Unione Europea, ed è logico e coerente che esso debba trovare piena applicazione anche nel nostro ordinamento nazionale. Attuare il federalismo significa crescere tutti insieme, valorizzando quanto vi è di meglio in ogni realtà regionale e locale. Ovunque il federalismo sia stato attuato a beneficiarne sono state maggiormente le aree che erano meno sviluppate. Lo stesso avverrà in Italia. Attuare il federalismo significa rafforzare lo Stato. Uno Stato federale è infatti più forte di uno Stato centralizzato, perché non dovendo svolgere tutte quelle funzioni che spettano alle entità federate è maggiormente in grado di assicurare le sue funzioni essenziali, come ad esempio la politica estera, la difesa, la giustizia, l’istruzione e la ricerca, le grandi reti infrastrutturali. Gli esempi degli Stati Uniti d’America o della Germania lo dimostrano chiaramente. La legge delega è stata approvata dal Parlamento il 29 aprile del 2009 e con i decreti attuativi si sta rivoluzionando il sistema dei trasferimenti delle risorse pubbliche tra lo Stato e gli Enti locali. Il nuovo sistema non sarà più basato sulla spesa storica dei vari servizi, che obbliga lo Stato a rifinanziare tutte le spese, sprechi compresi, ma sui costi standard ritenuti necessari per fornire ai cittadini i servizi fondamentali, a partire dalla Sanità. Con il federalismo fiscale gli Italiani dovranno poter usufruire di servizi pubblici di uguale livello e qualità in tutto il territorio nazionale, e i Comuni saranno coinvolti nell'accertamento dei redditi dei contribuenti per combattere l'evasione fiscale. Gli amministratori dovranno operare con la massima trasparenza e dare conto ai loro amministrati di come spendono i soldi delle imposte. Gli Enti locali godranno dunque di una maggiore autonomia fiscale: la cedolare secca sugli affitti, appena introdotta con uno dei primi decreti attuativi, risponde appunto a questa impostazione. Il federalismo fiscale non comporterà maggiori costi per lo Stato e sarà attuato senza alcun aggravio della pressione fiscale complessiva, che sarà anzi destinata a diminuire progressivamente, in ragione sia della diminuzione degli sprechi, sia del restringersi dell’area dell’evasione fiscale. Dall'attuazione del Federalismo nascerà una nuova Italia, l'Italia delle autonomie più attente e vicine alle reali esigenze dei cittadini. Un’Italia della responsabilità a fondamento di un nuovo patto nazionale. La realizzazione del nuovo assetto avverrà attraverso la valorizzazione di tutte le autonomie ordinarie, degli enti locali e nel rispetto delle autonomie speciali con l'impegno di salvaguardarne la peculiarità. Con questa riforma viene a compimento una delle missioni per le quali ci siamo impegnati in questi anni e che ha rappresentato uno dei pilastri della coalizione alla quale gli italiani hanno dato la responsabilità di governare il Paese.
La riforma fiscale per la crescita
L'obiettivo della maggioranza di governo è ridurre la pressione fiscale e disboscare la grande giungla di un sistema fiscale che è praticamente rimasto invariato nelle sue parti fondamentali fin dalla riforma dei primi Anni Settanta. Tenendo conto delle esigenze e delle compatibilità del bilancio pubblico, sulla base della lotta all’evasione fiscale e del dividendo della crescita, senza creare ulteriore deficit, il Governo intende pervenire entro la legislatura al varo di norme che consentano una graduale riduzione della tassazione su famiglie, lavoro, ricerca. Per le famiglie, soprattutto per quelle monoreddito delle fasce più deboli della popolazione, resta fondamentale l'obiettivo del quoziente familiare, che già si sta parzialmente sperimentando in una rete di Comuni tra cui la Capitale, con una revisione delle imposte locali e delle tariffe a favore dei redditi familiari, anche con un sostegno diretto alla libertà di educazione. Il sostegno alla famiglia e il riconoscimento del valore di ogni essere umano richiedono anche l’approvazione di norme a tutela della vita sulle quali esiste in questo Parlamento un consenso non limitato alle forze di governo. Per le imprese si è già cominciato a ridurre il carico dell'Irap, attraverso la manovra economica e le misure per lo sviluppo nelle Regioni del Sud. In determinati casi, le nuove iniziative imprenditoriali si vedranno ridurre a zero l'Irap. E’ un’ipotesi importante di fiscalità di vantaggio.
Ogni intervento sul fisco dovrà essere ovviamente supportato da una rigorosa analisi costi-benefici e dal consenso dell'Unione Europea, considerando che il debito pubblico che abbiamo ereditato resta superiore al prodotto interno lordo.La riforma fiscale sarà dunque la chiave strategica per la crescita del Paese.
Giustizia
La riforma della Giustizia è una priorità per il Paese, e il Governo rivendica i risultati già ottenuti, come la normativa e il Codice antimafia, l'introduzione del reato di stalking, la riforma del processo civile e la digitalizzazione del sistema giustizia. Ora, in ottemperanza del programma votato dagli elettori, intendiamo completare tutti gli altri punti. Il nostro intendimento è quello di attuare una riforma complessiva della giustizia, sia civile che penale, con l’obiettivo di rendere più efficiente il servizio ai cittadini ed effettivo l’articolo 111 della Costituzione, affinché nel processo sia assicurata la parità tra accusa e difesa, per una maggiore tutela delle vittime e garanzia degli indagati. Occorrerà intervenire sulla struttura del Csm con una riforma costituzionale che preveda due organismi separati, uno per i magistrati inquirenti e uno per i magistrati giudicanti, con il conseguente rafforzamento della separazione delle carriere. Occorrerà rafforzare, a maggior tutela dei cittadini, anche la normativa sulla responsabilità dei magistrati che sbagliano. E’ all’esame del Parlamento la legge a tutela delle alte cariche dello Stato. La stessa Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto che “il sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono alle alte cariche dello Stato costituisce un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello stato di diritto”. La giustizia è un pilastro fondamentale dello Stato di diritto, l'uso politico della Giustizia è stato invece e continua ad essere un elemento di squilibrio tra ordini e poteri dello Stato, ed è dovere della politica ristabilire il primato che le viene non dai privilegi di casta, ma dalla volontà popolare.
Spetta al legislatore fare le leggi, spetta ai magistrati applicarle, ovvero amministrare la giustizia.
Negli ultimi sedici anni questo equilibrio è stato in troppi casi alterato. Vi è poi il tema della ragionevole durata dei processi, che per la loro lentezza rappresentano una delle piaghe della giustizia italiana, sofferta da tutti i cittadini.
I nove milioni di processi pendenti per cui l'Italia è il Paese più condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sono un macigno che dovremmo tutti voler rimuovere. Il governo presenterà a breve un piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili pendenti, e a ciò si aggiungerà l'attuazione della delega in tema di semplificazione dei riti del processo civile, la riforma della magistratura onoraria e la riforma delle professioni.
Anche per questo riteniamo indifferibile un ulteriore aumento delle risorse per la Giustizia. Stiamo procedendo anche all'attuazione del piano carceri che consenta l’applicazione integrale dell’articolo 27 della Costituzione quanto alla umanità della pena ed alla rieducazione del detenuto. Non vanno ovviamente dimenticati i molti provvedimenti legislativi in corso di approvazione in tema di diritto sostanziale per meglio contrastare la criminalità, in particolare quello contro i fenomeni di corruzione.
Sicurezza
Con il pacchetto sicurezza il Governo italiano si è dotato della normativa antimafia più efficace al mondo per contrastare gli interessi economici della criminalità organizzata. Mai nella storia della Repubblica sono stati inferti così tanti colpi alla mafia e a tutta la criminalità organizzata. In due anni e quattro mesi sono stati sequestrati alle organizzazioni criminali più beni mobili ed immobili per un valore complessivo superiore ai 16 miliardi di euro. Le confische hanno già raggiunto un valore di 3 miliardi. Gli arresti di presunti mafiosi, attraverso più di 600 azioni delle forze dell’ordine, sono stati ad oggi 6.580, tra cui 27 dei 30 latitanti ritenuti più pericolosi. Sono risultati senza precedenti, ottenuti grazie all'impegno e alla determinazione politica del Governo, dei magistrati e delle forze dell'ordine che hanno operato in perfetta sinergia con l'esecutivo dando prova che esiste una grande squadra chiamata Stato. La maggioranza intende continuare questa lotta senza tregua alla criminalità organizzata, anche destinando al Ministero dell'Interno, al Ministro della Giustizia e alle forze dell'ordine una parte delle somme del Fondo unico di giustizia derivanti dal sequestro dei beni alla mafia. Tra le misure che hanno consentito una svolta cruciale nel contrasto al fenomeno mafioso, spiccano:
- l’inasprimento del carcere duro del 41 bis, così da impedire ai boss di continuare a dare ordini dal carcere e di godere del gratuito patrocinio;
- il reato di associazione mafiosa che è stato esteso anche alle organizzazioni criminali straniere;
- l’aumento di 30 milioni di euro del Fondo per le vittime dei mafiosi;
- il divieto di partecipazione alle gare per gli appalti pubblici per gli imprenditori che non denunciano le estorsioni.
Il Governo conferma anche il suo fortissimo impegno nella lotta alla criminalità comune.
L'azione dei Carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza, e di tutte le altre forze dell’ordine, sta dando grandi risultati, come dimostrano i dati relativi agli arresti, alle denunce e ai sequestri. Particolarmente significativo il risultato di un'accresciuta "sicurezza percepita", anche grazie all'operazione "Strade sicure" e al cosiddetto "modello Caserta" che vedono il coinvolgimento delle Forze Armate molto apprezzato dai cittadini nei quartieri più a rischio delle nostre città. Anche sul fronte dell'immigrazione clandestina questo Governo ha ottenuto grazie alla politica dei respingimenti e degli accordi internazionali, un grande risultato. Abbiamo ridotto dell'88 per cento gli sbarchi di clandestini che sono passati dai 29mila del 2008-2009 ai 3.500 dell'ultimo anno. Intendiamo proseguire nell’azione già intrapresa ed intendiamo anzi intensificarla favorendo nel contempo l’integrazione degli immigrati regolari.
Mezzogiorno
Il Sud ha bisogno di regole, di rispetto delle regole e di un’adeguata dotazione di infrastrutture materiali e immateriali. Il Piano per il Sud dovrà rispondere parallelamente a queste fondamentali esigenze.
Dal 2002 al 2009, su un valore di opere approvate dal Cipe e già cantierate, pari a circa 68 miliardi di euro, sono stati triplicati gli interventi nel Mezzogiorno. Nei prossimi tre anni saranno investite nel Mezzogiorno le risorse per circa 21 miliardi di euro (pari al 40% degli investimenti complessivi in tutt’Italia), raggiungendo nel 2013 alcuni risultati importanti come ad esempio: il completamento dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria; il sostanziale avanzamento di opere quali l’autostrada Telesìna; l’asse autostradale Ragusa – Catania, la superstrada Ionica 106 e il raddoppio della superstrada Agrigento-Caltanisetta; le statali Olbia – Sassari e Carlo Felice; la rete metropolitana campana. Entro dicembre sarà pronto il progetto esecutivo del Ponte sullo Stretto di Messina che si inserisce nella realizzazione del corridoio Berlino-Palermo e che prevede l’alta capacità sino a Palermo. Sono iniziati i primi lavori sulla costa calabrese e prossimamente partiranno quelli sulla costa siciliana. Sono anche in corso i lavori dell’asse ferroviario Napoli – Bari, dell’asse ferroviario Battipaglia – Reggio e del nodo ferroviario di Bari. Nel Mezzogiorno miglioreremo i servizi del trasporto regionale ferroviario e ciò grazie alle risorse assegnate lo scorso anno e a quelle dell’acquisto di nuovi treni tutti da immettere nel Sud Italia. Voglio sottolineare che tutte le nostre strategie di contrasto alla criminalità organizzata vanno considerate come il primo pilastro del Piano per il Sud perché la liberazione definitiva del territorio dalla morsa della criminalità organizzata è il presupposto indispensabile per lo sviluppo del nostro Mezzogiorno.
Ricordo tra i tanti provvedimenti in progetto:
- la Banca del Sud, in collaborazione con le Poste e con il sistema delle cooperative, per il finanziamento delle piccole realtà imprenditoriali;
- i Fondi europei per le aree sottoutilizzate concentrati su grandi iniziative strategiche;
- l’individuazione di zone franche urbane per nuove imprese come strumento di contrasto alla disoccupazione;
- e infine, come ho già anticipato, il Federalismo fiscale che sarà la riforma che metterà il Sud d'Italia alla pari del Nord nella qualità e nell'efficienza dei servizi pubblici, senza più sprechi nei costi tripli o quadrupli a causa di connivenze e infiltrazioni della criminalità nella gestione del denaro pubblico. Oltre alla fiscalità di vantaggio per il Sud, abbiamo avviato delle serie misure di lotta contro il lavoro irregolare, per favorire l’occupazione dei giovani, soprattutto nelle Regioni meridionali. Le misure poggiano su due pilastri: la semplificazione dei rapporti di lavoro e un maggiore controllo sui comportamenti che mettono a rischio l’incolumità dei lavoratori. Nel 2009, gli ispettori dell’INPS hanno controllato 100.591 aziende e nel 79% dei casi sono state riscontrate delle irregolarità. Le verifiche sono proseguite nel 2010 con un piano straordinario, concentrato specialmente in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia.
Questi cinque punti non sono un elenco di riforme tra loro disgiunte: sono i capisaldi di un’unica strategia-Paese il cui fine è quello di rafforzare le nostre istituzioni, la nostra economia, il nostro territorio, il nostro tessuto sociale in modo che l’Italia esca da questa crisi mondiale più competitiva e pronta a vincere la sfida della nuova globalizzazione. Questa strategia e questi capisaldi hanno come obiettivo la crescita economica e come fondamento irrinunciabile il rigore delle nostre finanze pubbliche, nella consapevolezza che non vi può essere crescita duratura ed equa senza stabilità dei conti pubblici. Dobbiamo essere chiari con i nostri cittadini: non esiste una scelta tra rigore e crescita, l'uno tiene l'altra e viceversa. Il deficit pubblico non crea crescita ma solo diseguaglianza e povertà delle generazioni future. Questi 5 capisaldi devono essere declinati in missioni che creino il contesto economico necessario a potenziare i motori della crescita attraverso una più efficace integrazione del nostro sistema produttivo nel flusso del commercio internazionale. Solo così le buone intenzioni e le ricette teoriche si tradurranno in vero e concreto sviluppo del Paese. Questo significa, per cominciare, favorire la crescita dimensionale delle nostre imprese e sostenerle più efficacemente nel loro sforzo di internazionalizzazione.
Questo significa semplificare il lavoro delle nostre aziende liberandole dall'enorme massa di regole, spesso contraddittorie, che rappresentano il primo vero svantaggio competitivo, fabbricato tutto in casa, prima ancora di doversi confrontare con gli inevitabili ostacoli in terre straniere. Significa completare la riforma liberale, che annunciammo sin dalla nostra discesa in campo, assicurando che il principio fondamentale del "tutto è consentito tranne ciò che è vietato" sia applicato con chiarezza e trasparenza anche nel nostro Paese. Significa superare un sistema produttivo ancora fondato su un modello spesso anacronistico di relazioni sociali che ancora richiama un presunto conflitto capitale-lavoro. Significa fornire i nostri cittadini e le nostre imprese di fonti di energia economicamente convenienti, rispettose dell'ambiente e che nel contempo riducano la pericolosa dipendenza energetica del nostro Paese. E la sola risposta oggi è il nucleare, una sfida che dobbiamo perseguire con convinzione e determinazione. Significa potenziare in modo sostanziale il nostro sistema educativo, a partire dalla scuola, fino all'università e la ricerca. L'eccellenza della filiera educativa è imprescindibile in un paese in cui l'unica materia prima sono i nostri giovani. E se non siamo in grado di valorizzare i nostri figli il nostro sarà un Paese senza futuro.
Conclusione politica
Onorevoli colleghi,
ho anticipato che non intendo ignorare le questioni politiche che gravano sul governo e sul futuro del nostro Paese. Siamo convinti che il nostro governo in questi due difficili anni abbia lavorato sodo con risultati ampiamente positivi. Perché allora – è inevitabile porsi questa domanda -, nonostante questi risultati, sono sorte all’interno della maggioranza distinzioni e divergenze, che hanno condotto alcuni parlamentari del Pdl a formare un nuovo gruppo parlamentare? Ho sempre sostenuto che, ferma restando l’intangibilità del programma di governo sottoscritto con gli elettori, tutto il resto si può dibattere e migliorare. E’ evidente che un governo, dopo le elezioni, si può trovare alle prese con condizioni politiche e con problemi nuovi scaturiti da eventi imprevedibili, come quello ad esempio della crisi economica internazionale da cui la necessità ovvia di scelte nuove e non già codificate dal punto di vista politico.
Non vi è dubbio, perciò, che su problemi nuovi, o sulle modalità di realizzazione del programma di governo in situazioni mutate, vi possa essere un necessario e legittimo dibattito all’interno dei partiti della maggioranza, discussione che può contribuire a mettere a punto una strategia più efficace nella risposta ai bisogni e di conseguenza capace di raccogliere un maggiore consenso. La mia stessa indole personale è sempre stata aperta alla ricerca di soluzioni più avanzate e migliori attraverso il confronto e l’apporto di contributi diversi. E’ indubbio che negli scorsi mesi la dialettica interna alla maggioranza ha molte volte superato i limiti fisiologici del confronto sulle idee e sul modo migliore di realizzare il programma sul quale si è raccolto il consenso del popolo italiano. Si è assistito a critiche aprioristiche al Governo ed a chi ha avuto dal popolo il mandato a guidarlo.
La mia amarezza, a questo proposito, deriva non solo dal fatto che sono convinto che l’azione del Governo non meritasse le critiche che gli sono state rivolte, ma anche dal fatto che uno degli obiettivi più importanti che mi sono posto, praticamente dal momento stesso in cui sono sceso in politica, è stato quello di riunire i moderati italiani in un'unica grande forza politica, capace di costituire uno dei pilastri del nascente bipolarismo.
La nascita del Popolo della Libertà ha rappresentato da questo punto di vista un primo rilevante risultato che ritenevo e ritengo tuttora importante, anzi importantissimo, in vista dell’unione quanto più ampia possibile dell’area moderata e riformista e che ha come punto di riferimento il Partito Popolare Europeo. Voglio ricordare quanto abbiamo scritto nella Carta dei Valori con la quale il Popolo della Libertà si è presentato agli elettori: “Il Popolo della Libertà è nato dalla libertà, nella libertà e per la libertà, perché l’Italia sia sempre più moderna, libera, giusta, prospera, autenticamente solidale. Noi sappiamo che i nostri valori sono radicati nella migliore tradizione politica del nostro Paese e della nostra società. Nel Popolo della Libertà si riconoscono infatti laici e cattolici, operai ed imprenditori, giovani e anziani. Si riconoscono donne ed uomini del nord, del centro e del sud.
Siamo orgogliosi di questo nostro carattere popolare, perché ci conferma nel nostro disegno, che è quello di unire la società italiana, e di condurla tutta insieme verso un futuro migliore”. Risulta chiaro da queste parole che chi ha dato vita al Popolo della Libertà lo ha fatto con lo scopo di unire e non di dividere. Chi si è candidato ed è stato eletto con il Popolo della Libertà si è impegnato quindi davanti agli italiani a perseguire l’unità, e non le divisioni.
Per queste ragioni, per il fatto che il popolo italiano dalle scorse elezioni ad oggi ha sempre dimostrato e continua a dimostrare la sua fiducia nella maggioranza parlamentare e nel Governo che ha scelto, io ritengo che i passi indietro determinati dalle vicende di questi ultimi mesi, non abbiano per nulla intaccato la validità di questo progetto, che è essenziale per il bene del nostro Paese.
Perciò sono convinto che in entrambi gli schieramenti si possa e si debba proseguire nell’impegno di costruire, pur nel riconoscimento delle diversità e dell’autonomia delle molteplici forze politiche, delle alleanze di governo e non semplicemente dei cartelli elettorali. Il passaggio di oggi costituisce un punto cruciale della legislatura. E’ importante riconoscerlo, per andare avanti e per non tornare indietro. Per il Paese è indispensabile che i prossimi tre anni della legislatura vengano utilizzati per completare le riforme economiche e sociali di cui l’Italia ha bisogno e per approvare quelle riforme istituzionali che sono necessarie per dotare il nostro Paese di un Parlamento e di un governo adeguati alla sua storia ed al suo futuro. Questa legislatura deve quindi continuare ad essere la legislatura delle riforme, compresa la riforma istituzionale, per la quale esiste una larga convergenza su alcuni punti essenziali: il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, il superamento del bicameralismo perfetto, la diminuzione del numero dei parlamentari, la riforma dei regolamenti delle Camere.Su questa riforma delle istituzioni c’è un lavoro già svolto in Parlamento che può diventare la base di partenza per un confronto che potrebbe approdare ad una decisione positiva entro la fine della legislatura.
Onorevoli colleghi,
sono convinto che sia assoluto interesse del nostro Paese non rischiare un periodo di instabilità.
Occorre fare ogni sforzo affinché ciò non accada. Occorre moltiplicare l’impegno comune per portare a compimento la legislatura con un’azione legislativa e di governo sempre più efficace. Occorre realizzare il nostro programma di riforme, il programma che abbiamo presentato al popolo italiano e sul quale il popolo italiano ci ha dato il mandato a governare. Dobbiamo tenere ben presente che nel popolo italiano si è profondamente radicata la volontà di poter scegliere direttamente da chi essere governati, ad ogni livello: dal sindaco della propria città al capo del proprio governo. La gran parte dei cittadini, per qualsiasi partito votino, non vuole che le decisioni fondamentali prese al momento delle elezioni possano venire alterate da logiche o interessi politici che sono a loro completamente estranei. Lo dico convinto che questo governo abbia fin qui ben operato, lo dico convinto che non vi siano le condizioni di un’alternativa ad esso che possa rispettare sia la volontà popolare, sia la logica di un parlamento democratico, lo dico convinto che l’azione e i successi del governo sono stati resi possibili dal forte sostegno e dall’impegno costante dei gruppi parlamentari della maggioranza, sia della Camera che del Senato, ai quali va il sentito ringraziamento mio personale e dell’intero esecutivo. Abbiamo quindi il dovere di continuare a governare e a governare sempre meglio nell’interesse del Paese, secondo il mandato che gli elettori ci hanno liberamente dato due anni fa, e che hanno ripetuto e rafforzato ad ogni successiva tornata elettorale. Lo ripeto: oggi siamo di fronte a un passaggio delicato della vita politica italiana, le cui sorti sono affidate al senso di responsabilità di tutti e di ciascuno, sono affidate alla capacità della “politica” di mettere in primo piano il bene comune e l’interesse nazionale.
Ecco perché, onorevoli colleghi,
oggi voglio rivolgermi non solo alla maggioranza ma all’intero Parlamento, al di là di ogni schieramento.
Spero che le mie parole siano meditate da ciascuno di voi e, in particolare rivolgo un appello a tutti i moderati e a tutti i riformatori: a quelli che condividono i valori liberali e democratici e a quelli che hanno la stessa visione della libertà, della patria, della persona, della famiglia, dell’economia e del lavoro. È un invito che rivolgo anche alle forze più responsabili dell’opposizione affinché valutino il nostro programma riformatore senza pregiudizi, avendo come obiettivo il bene di tutti i cittadini. Per quanto ci riguarda, consapevoli delle responsabilità che gli italiani ci hanno attribuito, continueremo ad impegnarci con dedizione, con passione, con entusiasmo nell’attività di governo, per un'Italia più libera, più giusta e più prospera.
Vi ringrazio.
Care amiche, cari amici,
voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro.
Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici.
I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese.
Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.
E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.
Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra.
Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.
Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo.
Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche.
Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti.
Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa.
Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”.
Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato.
Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo.
Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo.
Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza,
“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”.
Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune.
E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato.
Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio.
Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato.
Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia.
Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.
Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire.
Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati.
So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale.
Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.
È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire.
È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente.
Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.
Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.
Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato.
Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.
È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.
Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.
Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi.
Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia.
Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.
Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino.
Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti.
Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.
E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.
Amiche carissime, cari amici, la sera del 2 dicembre 2006, in piazza San Giovanni a Roma, di fronte ai due milioni di italiani che per la prima volta, contro il governo delle sinistre e delle tasse, sventolavano insieme le bandiere di Forza Italia, di Alleanza Nazionale e degli altri partiti moderati che, come noi, si riconoscono nei principi e nei valori della libertà mi vennero spontanee queste parole “Chi crede nella libertà non è mai solo”.
Le stesse parole le ripeto oggi qui per celebrare con voi l’avverarsi di un grande sogno: la nascita ufficiale del “Popolo della Libertà”, un movimento che in realtà è già nato, è già cresciuto, è già forte, è già vincente. Il Popolo della libertà già esiste perché è nato nella mente e nel cuore di milioni di italiani, che lo hanno voluto e costruito nelle piazze, nelle strade, nei gazebo, e poi l’hanno votato, superando di slancio le divisioni partitiche del passato. E’ un partito forte, il più grande per numero di consensi. E’ un partito vincente, che si è già affermato in modo splendido nelle urne il 13-14 aprile 2008, e poi al Comune di Roma, poi nel Friuli Venezia Giulia, poi in Sicilia, poi in Abruzzo e poi in Sardegna.
Oggi i sondaggi ci danno al 43 per cento. Puntiamo al 51 per cento. Sappiamo come arrivarci, sono sicuro che ci arriveremo. Siamo moltissimi a credere negli stessi ideali: non solo qui, ma in ogni Comune d’Italia, in ogni casa, nei luoghi dove si studia, dove si lavora, dove si produce, al Nord, al Centro, al Sud, nelle nostre Isole. Siamo un popolo operoso di donne e di uomini di tutte le età, giovani e meno giovani, che sanno essere tenaci e pazienti, che sanno essere umili e fieri, che credono nel futuro.
Siamo una forza positiva, un’energia costruttiva al servizio del Paese. Siamo il partito degli italiani, siamo il partito degli italiani di buon senso e di buona volontà, siamo il partito degli italiani che amano la libertà e vogliono restare liberi. Abbiamo già costruito qualcosa che prima non c’era, stiamo rendendo possibili in Italia il bipolarismo e la democrazia dell’alternanza. E’ stato grazie a noi che la sovranità è stata restituita nelle mani del popolo, rompendo definitivamente lo schema per il quale prima si prendevano i voti e poi si diceva con chi e per che cosa si intendeva governare.
Gli italiani lo hanno capito e hanno dimostrato di condividere il metodo democratico del bipolarismo e, in prospettiva, del bipartitismo come base del confronto politico e della governabilità, senza la quale è impossibile avviare e condurre a termine una vera stagione di riforme e di ammodernamento dell’Italia. I danni causati dalla mancanza di stabilità e di governabilità li conoscete. Dal 1948 ad oggi, la Repubblica italiana ha visto succedersi ben 57 governi diversi, circa uno all’anno, che invece di ammodernare l’Italia hanno prodotto il terzo debito pubblico al mondo, senza che la nostra sia la terza economia del mondo. Nei Paesi trainanti dell’Europa la stabilità dell’esecutivo è stata un dato costante. Per questo in quei Paesi c’è un debito pubblico che, in percentuale, è la metà del nostro.
Le ultime elezioni politiche sono state, finalmente, un passo importante verso la stabilità e la governabilità, verso la modernità politica. Grazie a una legge elettorale voluta da noi e ingiustamente denigrata dalla sinistra, il 70 per cento degli italiani ha votato per due soli partiti, il Partito della Libertà e il Partito Democratico. E’ un risultato di cui, gli italiani e noi, portiamo il merito insieme.
Dove non è riuscito il Palazzo, è riuscito il popolo. Dopo tante proposte di riforme istituzionali nel passato e dopo altrettanti fallimenti, per la prima volta si è attuata una riforma grazie all’intervento diretto del popolo, con le sue scelte di voto. E’ stato, è un capolavoro politico degli italiani e nostro, di cui dobbiamo andare orgogliosi.
Abbiamo deciso di chiamarci Popolo della Libertà. Lo abbiamo deciso – voglio ricordarlo a tutti – dopo aver chiesto alla nostra gente, ai nostri simpatizzanti, agli elettori che già in passato ci avevano dato la loro fiducia, ma soprattutto ai giovani, alle donne, agli uomini, alle persone di ogni età che si avvicinavano a noi per la prima volta con la speranza nella mente e nel cuore. Abbiamo chiesto a loro di indicarci se volessero essere un “popolo” oppure un “partito”, se volessero chiamarsi Popolo della Libertà o Partito della Libertà.
Fu quella, del 17 e 18 novembre 2007, una consultazione che vide affluire e registrarsi spontaneamente ai nostri gazebo milioni di italiani. Un popolo autentico, genuino, estraneo ai riti del Palazzo, perché non c’erano candidati prefabbricati da approvare e apparati e nomenklature da confermare, nulla insomma di paragonabile ai rituali a cui abbiamo assistito nelle varie primarie della sinistra. C’era esclusivamente una libera scelta da compiere. E la scelta ci ha dato a grandissima maggioranza questa precisa indicazione: dovevamo essere un “popolo”, prima ancora che un “partito”: il Popolo della Libertà.
Vi chiedo di riflettere sul significato di quel referendum. Popolo e libertà definiscono compiutamente la nostra identità. Dicono chi siamo. Perché popolo e perché libertà?
La nostra Costituzione, all’articolo 1, stabilisce: “La sovranità appartiene al popolo”. La carta fondativa del nostro Stato fin dalla prima riga si richiama al popolo. Lo ricordo a noi stessi, ma anche a quanti, dall’altra parte, si nascondono ogni volta dietro una strumentale difesa della Costituzione, quasi fosse una loro esclusiva proprietà. Salvo poi cambiarla in peggio o dimenticarsi di attuarla e di praticarla nelle loro scelte. Noi invece l’abbiamo fatto, e oggi lo rivendichiamo con orgoglio.
Ma il riferimento al popolo, termine così abusato dalla sinistra, ci riporta invece nel solco più ortodosso, più puro delle democrazie occidentali. Nel 1787 Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, George Washington e gli altri padri fondatori degli Stati Uniti d’America vollero iniziare con queste parole la loro Costituzione, che era al tempo stesso una dichiarazione d’indipendenza e di libertà: “Noi, il popolo degli Stati Uniti”.
Anche la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata in Francia nel 1789 pose al suo centro il popolo attraverso quattro principi: la libertà della persona, il diritto “inviolabile e sacro” alla proprietà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione.
In Italia, negli anni tumultuosi del primo dopoguerra, don Luigi Sturzo fondò il Partito che chiamò Partito popolare. Ancora una volta al “popolo” veniva demandato di superare gli steccati ideologici e di classe. Quanta lungimiranza vediamo ora in quella scelta, che fu ripresa nel dopoguerra da Alcide De Gasperi e che si è poi trasfusa intatta nel Partito del Popolo Europeo, la grande famiglia della democrazia e della libertà in Europa, la naturale famiglia del Popolo della Libertà. Popolo dunque ma anche “Libertà”.
Questa parola, questo concetto ci appare così normale, quasi scontato, ma è invece il bene più prezioso che abbiamo. La libertà, ce lo insegna la storia, non ci è mai data per sempre: essa va difesa ogni giorno, così come molti uomini eroici l’hanno difesa e per lei si sono sacrificati ed hanno perso la vita sui campi di battaglia, nelle rivoluzioni, nei gulag e nei lager. Anche nel tempo della pace, la libertà va custodita come una religione. La nostra religione laica.
La libertà è come l’aria: soltanto quando manca comprendiamo veramente quanto sia indispensabile. E’ come la salute: a cui non pensiamo quando stiamo bene, quando ci sentiamo forti e sani. Ci si accorge della libertà soltanto quando comincia a mancare. La libertà è come la pace, soltanto quando c’è la guerra o solo quando c’è il pericolo di una guerra invochiamo la pace. La libertà, in un Paese moderno e democratico, definisce soprattutto il rapporto tra l’individuo e lo Stato.
E qui siamo al cuore della nostra identità, al cuore della diversità tra noi e la sinistra. Per loro ancora oggi lo Stato è qualcosa di superiore ai cittadini: è lo Stato autoritario, centralista, dirigista. E’ lo Stato padrone di ogni uomo, il suo precettore, il suo pedagogo. E’ lo Stato padrone della vita dei cittadini. I cittadini devono essere al servizio dello Stato, perché per la sinistra lo Stato è quasi un moloch, una divinità. Ma attenzione: ha solo le sembianze di una divinità, perché in realtà è potere, è l’esercizio del potere e dell’oligarchia.
Lo Stato per loro è la fonte dei nostri diritti, per loro lo Stato ci concede graziosamente i nostri diritti e quindi, quando ritiene sia suo interesse – cioè l’interesse di chi è al potere -, questi diritti può limitarli e anche calpestarli. Hanno aggiornato il loro vocabolario ma non la loro concezione del potere: una concezione pericolosa, una concezione che ci allontana dalla libertà, dalla civiltà, ci allontana dalla democrazia, ci allontana dal benessere.
A questa concezione della sinistra noi contrapponiamo la nostra filosofia della libertà, la nostra “religione” della libertà. Di comune accordo, tutti i movimenti che confluiscono nel Popolo della Libertà hanno scelto come “Carta dei valori” il Manifesto del Partito del Popolo Europeo che anche noi abbiamo contribuito a definire.
I principi di questa Carta dei valori, i principi in cui noi crediamo non sono principi astrusi, non sono ideologie complicate; sono i valori fondanti e fondamentali di tutte le grandi democrazie occidentali. Li ho enumerati, parlando a braccio nel mio primo intervento nella trincea della politica, quindici anni fa e sono vivi e vivificanti oggi come allora.
Noi crediamo nella libertà, in tutte le sue forme, molteplici e vitali: nella libertà di pensiero e di opinione, nella libertà di espressione, nella libertà di culto, di tutti i culti, nella libertà di associazione. Crediamo nella libertà di impresa, nella libertà di mercato, che deve essere regolata da norme certe, chiare e uguali per tutti. Ma la libertà non è una gentile concessione dello Stato, perché è ad esso anteriore, viene prima dello Stato. È un diritto naturale, che ci appartiene in quanto esseri umani e che semmai, essa sì, dà fondamento allo Stato. E lo Stato deve riconoscerla e difenderla proprio per essere uno Stato legittimo, libero e democratico e non un tiranno arbitrario.
Crediamo che lo Stato debba essere al servizio dei cittadini, e non i cittadini al servizio dello Stato. Crediamo che lo Stato debba essere il servitore del cittadino e non il cittadino sottomesso allo Stato. Per questo crediamo nella centralità dell’individuo e riteniamo che ciascuno debba avere il diritto di realizzare sè stesso, di aspirare al benessere e alla felicità, di costruire con le proprie mani il proprio futuro, di poter educare i figli liberamente.
Per questo crediamo nella famiglia, che è il nucleo fondamentale della nostra società. E crediamo anche nell’impresa, a cui è demandato il grande valore sociale della creazione di lavoro, di benessere e di ricchezza.
Noi crediamo nei valori della nostra tradizione cristiana, nel valore irrinunciabile della vita, del bene comune, nel valore irrinunciabile della libertà di educazione e di apprendimento, nei valori irrinunciabili della pace, della solidarietà, della giustizia, della tolleranza, verso tutti, a cominciare dagli avversari. E crediamo soprattutto nel rispetto e nell’amore verso chi è più debole, primi fra tutti i malati, i bambini, gli anziani, gli emarginati.
Vogliamo vivere in un Paese moderno dove siano valori sentiti e condivisi la generosità, l’altruismo, la dedizione, la passione e l’amore per la propria famiglia, per il proprio lavoro, per la propria Patria. Popolo e Libertà. Dunque, il Popolo della Libertà.
Ecco perché non è retorico affermare che oggi noi siamo il movimento, l’unico movimento, che realizza il sogno di un popolo, le speranze di un popolo, le attese di un popolo, l’unico partito che definisce l’identità del nostro popolo. Questo nostro partito, questo nostro movimento deve essere dunque anzitutto garanzia e baluardo di libertà.
Solo tenendo fede a questo solenne impegno, a questo giuramento, potremo chiedere e ottenere il consenso di un numero sempre maggiore di italiani per essere una maggioranza sempre più vasta in grado di riformare il nostro Paese.
In questo senso consentitemi di rivendicare un altro motivo di orgoglio. La nascita del Popolo della Libertà colma quella che molti studiosi hanno individuato come una lacuna nel percorso storico dell’Italia. L’Italia, si è spesso detto, non ha mai avuto - a differenza della Francia, degli Stati Uniti, dell’Inghilterra - una vera e autentica rivoluzione liberale. E questo, si è aggiunto, è stato tra le cause “prima” dell’affermarsi di pulsioni totalitarie a sinistra come a destra, “poi” del cattivo rapporto tra cittadino e Stato. Una democrazia in qualche maniera incompiuta.
Oggi noi abbiamo l’ambizione di colmare questo vuoto. Di rispondere a quella domanda rimasta inevasa per lunghi decenni. Di realizzare la nostra rivoluzione liberale, borghese e popolare, moderata e interclassista. E di farlo con una forza che non ha precedenti nella nostra storia politica. Dio sa quanto il Paese ne abbia bisogno.
Il percorso verso questo nostro Popolo della Libertà è stato fin dall’inizio definito in un clima di grande concordia. Direi di più: in un clima di armonia, espressione che a tutti noi ricorda Pinuccio Tatarella, uno dei primi a condividere l’aspirazione ad un grande partito unitario dei moderati, di tutti gli italiani che non si riconoscono nella sinistra.
Di più. Questa vocazione maggioritaria era già presente nel momento in cui invitai a votare alle elezioni di Roma del '93 per Gianfranco Fini e non per Rutelli, ed i dirigenti del Movimento Sociale Italiano ebbero il merito di capire la portata di quella intuizione.
Intuizione che trovò attuazione pratica in tre passaggi fondamentali: il 26 gennaio 1994, giorno in cui nacque Forza Italia; sempre in quel gennaio ’94, quando i dirigenti del Movimento Sociale Italiano iniziarono a discutere di Alleanza Nazionale; e poi con il congresso di Fiuggi del 27 gennaio 1995, quando Fini diede vita ad Allenaza Nazionale.
Giustamente quella di Fiuggi è passata alla storia come una svolta: si trattò infatti dell’autentica rifondazione della destra. Che seppe allora chiudere coraggiosamente con un passato che la destinava ad essere minoranza, e si aprì ad un futuro di moderna forza di governo pienamente legittimata sulla scena italiana ed europea. Gli osservatori più banali coniarono il termine di “sdoganamento” della destra.
Una visione davvero riduttiva, un termine inaccettabile perché – come ha già detto anche Gianfranco - non si applica alle idee, soprattutto alle idee giuste, che sanno imporsi da sole. Per questo desidero rivolgere a Gianfranco un ringraziamento e un saluto affettuoso perché anteponendo l’interesse dell’Italia a quello personale ha contribuito in modo decisivo a scrivere insieme a noi questa pagina di storia.
Grazie Gianfranco, grazie ancora da tutti noi. Le nostre idee erano e sono vincenti. Forza Italia e Alleanza Nazionale hanno infatti sempre avuto la naturale disposizione a rappresentare non una parte, ma l’interesse generale del Paese.
Fu così che nella confusione di quegli anni noi sapemmo offrire una risposta nazionale a un'emergenza democratica. Una storia iniziata col Polo delle Libertà e il Polo del Buongoverno, consolidata dalla “Traversata del deserto”, proseguita con la Casa delle Libertà, e che oggi trova qui il suo approdo naturale e definitivo.
E’ per me doveroso ringraziare tutti i partiti, i movimenti e le personalità che, insieme a Forza Italia e ad Alleanza Nazionale, hanno contribuito alla nascita del Popolo della Libertà, con un voto solenne di autoscioglimento prima e di adesione poi: - la Nuova Dc per le autonomie di Gianfranco Rotondi, - il Nuovo Psi di Stefano Caldoro, - il Partito Repubblicano di Francesco Nucara, - l’Azione Sociale di Alessandra Mussolini, - i Popolari Liberali di Carlo Giovanardi, - i Liberaldemocratici di Lamberto Dini, - il Movimento Politico Italiani nel mondo di Sergio De Gregorio, - il Movimento Politico per la Liguria di Sandro Biasotti, - la Destra Libertaria di Luciano Bonocore, - la Federazione dei Cristiano Popolari di Mario Baccini. Ringrazio anche Benedetto della Vedova che è confluito da tempo nel Popolo della Libertà con i suoi Riformatori Liberali.
Ringrazio Stefania Craxi, figlia e degna erede politica di un mio carissimo amico, Bettino Craxi, che ebbe, tra gli altri, un grande merito: fu il primo presidente del Consiglio a rivolgersi nel Parlamento ai banchi della destra garantendo che il partito della destra sarebbe stato trattato alla pari di tutti gli altri partiti democratici superando così l’idea che la vera Costituzione italiana fosse l’accordo tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Fu così che egli decretò nei fatti la fine del cosiddetto “arco costituzionale”. In quel 1994, con la Casa delle Libertà i concetti di popolo e di nazione che definivano il termine Italia erano il solo criterio che ponemmo alla base di un movimento rivolto agli italiani che non si riconoscevano nell’egemonia della sinistra postcomunista dopo la fine dei partiti storici della democrazia italiana.
Solo con concetti così universali come “Italia”, “popolo” e “nazione” ci fu possibile rivolgerci allora, sia alla Lega Nord sia al Movimento Sociale, così diversi nelle loro origini. Ci trovammo a svolgere il ruolo di argine a un possibile elemento di conflitto civile determinato dall’incedere della protesta del Settentrione.
L’adesione al Trattato di Maastricht e la prospettiva dell’euro avevano profondamente cambiato l’economia italiana. Il Nord produttivo entrò in rotta di collisione col sistema dei partiti e della spesa pubblica, e questo condusse a una protesta profonda e diffusa, che dal popolo delle partite Iva si allargò al mondo industriale e alle classi dirigenti.
Umberto Bossi seppe comprendere per primo e per primo dare una risposta politica al malessere del Nord. Era assolutamente necessario ritrovare il sentimento di “Italia come Patria” anche nel Nord, per poter dare ai problemi posti dalla Lega una risposta che evitasse ogni tentazione separatista. Offrimmo allora a Bossi una via che tenesse conto e accogliesse il sentimento del Nord ed evitasse i danni di un confronto senza mediazione politica tra la Lega e lo Stato.
Come su un altro terreno Gianfranco Fini, anche Bossi si rivelò un vero leader, un leader coraggioso e lungimirante. Ed anche a lui inviamo un caldo abbraccio ed un grande applauso. Sono stati quindici anni nei quali, come ho detto, abbiamo conosciuto stagioni di governo e di opposizione; ma in tutto questo tempo - lo dico con orgoglio - il centrodestra è sempre stato maggioranza nel Paese. Un’avventura entusiasmante e – possiamo ben dirlo – vittoriosa.
Guardiamo le cose nel loro giusto orizzonte. La sinistra, uscita quasi indenne dalla tempesta politico-giudiziaria del ’92-’93, e risparmiata in modo “chirurgico” dalle inchieste della magistratura militante, è entrata in quel periodo da trionfatrice tra le macerie della Prima Repubblica, come l’Armata Rossa entrò tra i palazzi diroccati di Varsavia e di Berlino, dopo avere opportunisticamente atteso alle frontiere.
Nel ‘94 il Pci si era da poco trasformato in Pds, mantenendo intatti del Partito comunista, la struttura, l’intero gruppo dirigente, il centralismo democratico, ed anche la falce e il martello. Ma soprattutto non rinnegando nulla di quelle idee condannate per sempre dalla storia – eppure il muro di Berlino era stato abbattuto nell’89 – e ritenendo che per reinventarsi bastasse semplicemente sostituire una parola: “democratici” al posto di “comunisti”. Un inganno che si è ripetuto e si ripeterà spesso. Unica novità, il venir meno dei finanziamenti illeciti dall’Unione sovietica ormai scomparsa.
La sinistra era convinta di “dover” andare al governo, di avere il diritto di governare. Ma la “gioiosa macchina da guerra”, guidata nel 1994 da Achille Occhetto contro il sottoscritto, fallì l’impresa. Da allora, in questi quindici anni, con varie trasformazioni, con varie geometrie, con vari camuffamenti, la sinistra non è mai mutata.
Non una sinistra, dunque, che guardava al centro e aspirava a conquistare il consenso dei moderati; ma una sinistra che mirava a riunire tutte le sinistre possibili, e ad imporre i suoi modelli egemonici a chi, fino a poco prima, era stato laico, democratico, socialista o democristiano. Il tutto sotto l’occhio benevolo e complice della assoluta maggioranza della stampa e delle proprietà azionarie sovrastanti; dei circoli intellettuali; dei cosiddetti salotti buoni, comprese le loro ramificazioni all’estero. E naturalmente con la complicità di una certa magistratura. “Repetita iuvant”, si dice da sempre.
Per descrivere la sinistra, non trovo parole più chiare ed efficaci di quelle che pronunciai il giorno della mia discesa in campo. Dissi: “Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell’iniziativa privata, non credono nell’individuo. Non credono che il mondo possa migliorare attraverso l’apporto libero di tante persone tutte diverse l’una dall’altra. Non sono cambiati.
Ascoltateli parlare. Guardate i loro telegiornali pagati dallo Stato, leggete la loro stampa. Non credono più in niente. Vorrebbero trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna. Per questo siamo stati costretti a contrapporci a loro”. Non dimentichiamoci mai che nel nostro Paese ci sono stati milioni di “adoratori” di tiranni sanguinari come Stalin, come Mao, come Pol-Pot.
Le forze riformiste sono sempre state schierate nella coalizione di centrodestra, mentre i cultori dell’immobilismo e della conservazione sono sempre stati a sinistra. Quel passo che hanno fatto da decenni tutte le sinistre del mondo, dai socialdemocratici tedeschi al New Labour inglese fino ai socialisti spagnoli, quel passo gli eredi diretti del comunismo italiano non hanno mai avuto la volontà, il coraggio e la forza di farlo. Voglio dire: il coraggio e la forza di rinnegare il comunismo e di chiedere scusa agli italiani.
In Italia gli unici a sopravvivere al fallimenti ed al crollo delle ideologie sono stati gli sconfitti della storia. Di conseguenza, non esiste e non è mai esistita, discontinuità di strategie e di personale politico tra la classe dirigente che era stata erede di Palmiro Togliatti e quella di oggi. Mentre noi andavamo avanti, loro andavano indietro.
La destra italiana si è rinnovata, loro hanno fatto soltanto finta di farlo. Così dopo la “gioiosa macchina da guerra” è venuto il ribaltone, e poi l’Ulivo, e quindi l’Unione, dopo ancora il Partito Democratico, ed oggi si assiste nuovamente ad un ritorno al passato, al tentativo di recuperare tutte le sinistre, al recupero del sindacato più conservatore e di tutti gli antagonismi.
Un carosello di trasformismi e di autentici trasformisti. Ad ogni invenzione botanica, prima la Quercia, poi l’Ulivo poi la Margherita, i consensi della sinistra sono andati via via riducendosi, e ancora di più si è ridotta la loro credibilità nel Paese. Le loro alleanze si sono sempre rivelate conservative e difensive.
I loro governi hanno offerto agli italiani uno spettacolo continuativo di risse, di tradimenti, di psicodrammi parlamentari. Mentre noi eravamo impegnati nel fare, loro monopolizzavano i talk show. E li monopolizzano tutt’ora. Mentre noi portiamo a termine le legislature, loro sono riusciti ad avvicendare in cinque anni quattro governi e tre presidenti del Consiglio. E stendiamo un velo pietoso sull’ultima esperienza governativa.
Signor Presidente, signori deputati. Precisamente un anno fa, il 2 agosto, ebbi l’onore di parlare alla Camera, come Presidente del Consiglio, in risposta ad atti ispettivi di parlamentari della maggioranza e dell’opposizione. Ricorderete, signori deputati, che la situazione politica era fortemente surriscaldata: maggioranza ed opposizione non trovavano alcun terreno di intesa. Il voto aveva designato al Governo i moderati ed i riformatori del polo delle libertà, mentre i progressisti erano il gruppo più forte dell’opposizione. I toni della contesa politica erano assai aspri e si parlava apertamente di crisi di Governo: regnava una sovrana incomunicabilità. Oggi non parlo dal banco del Governo, ma sento la responsabilità e l’orgoglio di parlare come leader del polo delle libertà e del buon governo, che parla con una sola voce. Intervengo, perciò, anche a nome di alleanza nazionale, del centro cristiano democratico, dei cristiano democratici uniti, della lega italiana federalista, dell’unione federalista, dei federalisti e liberaldemocratici e dei riformatori. Tali gruppi parlamentari mi hanno dato congiuntamente mandato di rappresentare qui la nostra comune posizione sulle riforme costituzionali, che deriva da comuni principi e da un comune sentire. Non voglio ora rievocare i fatti successivi al discorso di un anno fa ed il loro significato per la vita di questo paese.
Mi limito a ricordare che al termine del mio intervento rivolsi un appello, all’opposizione costituzionale, che suonava così: incalzateci, controllateci, criticateci, opponetevi con ogni mezzo alle nostre decisioni, preparatevi a sostituirci dopo le prossime elezioni politiche, ma riconoscete la nostra legittimità a governare e lasciateci lavorare, lasciateci attuare il programma per l’Italia che abbiamo proposto agli elettori e che questi hanno scelto. Nelle democrazie che funzionano – ebbi modo di concludere – si fa così. La questione istituzionale di cui oggi discutiamo nasce da lì, dal concreto di quello scontro politico asperrimo. Per decenni nel nostro paese si è discusso in ogni forma ed in ogni modo di riforme costituzionali, di urgenti mutamenti del sistema politico, di grandi svolte e correzioni rispetto alla lunga storia della prima Repubblica. E’ stato un dibattito alto e severo nei suoi contenuti, al quale hanno dato un contributo grandi personalità della nostra vita pubblica. Ma quel dibattito era viziato da una certa astrattezza di fondo; si capiva che le cose di cui si discuteva erano considerate con un interesse estrinseco di tipo dotto ed accademico, senza un diretto collegamento con la realtà della battaglia politica e civile. L’Italia dei partiti, fondata sul sistema elettorale proporzionale e sulla dottrina non scritta del consociativismo, si permetteva il lusso di immaginare un futuro che però non doveva arrivare mai.
Il delicato equilibrio dei rapporti consociativi tra partiti-Stato poteva essere messo in discussione solo e soltanto con il pensiero, con la fantasia costituzionale: i fatti e con essi il debito pubblico e la credibilità internazionale del paese andavano in un’altra direzione. Quell’equilibrio oggi non esiste più. Il referendum che ha introdotto in Italia il sistema maggioritario e poi il concreto funzionamento di questo sistema con il voto del 27 marzo 1994, hanno creato nuove condizioni ed un nuovo scenario per tutti. Nel nuovo sistema politico, per quanto testardi e scaltri siano i tentativi di restaurare surrettiziamente le vecchie abitudini, non deve esserci più spazio per il vecchio balletto dei governi che durano un’effìmera stagione, per il sequestro della decisione politica da parte di potenti apparati di partito, per una logica di rinvio dei problemi e di crisi permanente dello Stato. I cittadini con il sistema maggioritario hanno conquistato il diritto di votare per coalizioni chiaramente alternative tra loro, per programmi diversi che esprimono culture e sensibilità diverse e spesso opposte e, soprattutto, hanno il diritto di costruire con il loro voto una seria stabilità politica, fornendo ai governi il tempo utile e gli strumenti utili per attuare i programmi di cui sono espressione. A questo diritto corrisponde la possibilità inequivoca di cambiare – al termine di un mandato di legislatura – Governo e maggioranza. La politica così diventa un’occasione civile ed un momento alto di espressione della società civile, anziché una professione a vita. La classe di governo non è, e non deve più essere, buona per tutte le stagioni, le facce non devono più essere le stesse per mezzo secolo. Il compito di chi fa politica, se vuole confermare il consenso di cui gode, non è più quello di autoriprodursi e di perpetuarsi: chi fa politica deve fare cose utili per il proprio paese. Se ci riesce, resta per un tempo circoscritto; se non ci riesce, va via. La questione istituzionale, il problema dello strumento di guida del Governo, del volante che deve essere dato a chi guida lo Stato, si pone dunque in tutta la sua concretezza solo e soltanto oggi. Stavolta bisogna decidere per un grande cambiamento, per una grande svolta, per una grande riforma. Ho apprezzato l’ipotesi, che è stata avanzata anche da molti deputati del polo, che la grande riforma a cui dobbiamo lavorare sia deliberata da un’assemblea costituente per meglio scandire la discontinuità tra la nuova fase della Repubblica e quella che ci stiamo lasciando alle spalle.
Ma questa ipotesi, che avevo giudicato poco praticabile per motivi sostanziali e che comunque – per i tempi necessari – allontanerebbe nel tempo l’obiettivo del cambiamento, non ha in ogni caso incontrato quel consenso diffuso e generalizzato a cui dovrebbe aspirare un assemblea costituente realmente legittimata. In queste condizioni, temo che essa si risolverebbe in una forzatura. E’ bene quindi che alla grande riforma si ponga mano nella prossima legislatura, utilizzando l’apposito procedimento di revisione costituzionale regolato dall’articolo 138. In questa direzione ci siamo dichiarati e ci dichiariamo favorevoli ad una revisione della nostra forma di governo che veda il vertice dell’esecutivo insediato direttamente e senza mediazioni dal voto degli elettori; un esecutivo che tragga la sua forza e legittimazione a governare dall’investitura diretta dei cittadini e non dalle diffìcili, mutevoli e sempre precarie intese tra i partiti. Quale sia lo sbocco finale di un Governo che per sopravvivere debba fare conti quotidianamente con maggioranze parlamentari che il più delle volte sono tali soltanto di nome, e che sono invece percorse al loro interno da divergenze, disomogeneità o vere e proprie fratture latenti, lo insegna la nostra storia istituzionale, anche recente: governi deboli, prigionieri di maggioranze che riescono a stare insieme solo facendo dello scambio politico e della dissoluzione della finanza pubblica la loro vera identità politica e la loro più profonda ragion d’essere.
“Gli italiani sanno scegliere e sanno votare nei referendum, come hanno dimostrato dal 1974 ad oggi, con una puntigliosità e con una capacità di essere liberi che è il tratto migliore della nostra storia”
Per governi di questo genere non può esservi posto nell’Italia che vogliamo, nel sistema istituzionale che costruiremo e per il quale chiederemo il sostegno degli elettori. Il governo ha da essere autorevole, trasparente, responsabile della sua politica di fronte ai cittadini; deve essere capace di difendere la sua politica (sulla quale ha raccolto il consenso elettorale) dai sotterfugi, dagli intralci, dai trabocchetti e dalle congiure di palazzo. Il Governo, l’istituzione più debole nell’attuale organizzazione costituzionale, deve essere dotato di strumenti efficaci di iniziativa politica e dei poteri necessari per dare attuazione e seguito al suo programma. Nella nostra storia, questo non è mai stato. Ogni legge, ogni decisione, anche quelle di minimo rilievo, è misura occasionale, contingente, provvisoria. E non si richiede che le leggi siano pensate nel contesto di un disegno strategico, di linee coerenti di politica pubblica. Nella mia esperienza di Governo ho potuto direttamente constatare quale sia l’assenza di responsabilità ai diversi livelli e la grave mancanza di efficaci strumenti a disposizione dell’esecutivo, e ho potuto apprendere quanto profondi ed insanabili siano i guasti che tutto ciò ha comportato per la vita pubblica. Alla debolezza dell’istituzione Governo si è sempre accompagnata – né poteva passere altrimenti – la debolezza del Parlamento, che si mostra sempre più incapace di elaborare coerenti linee di indirizzo politico e di assumere con tempestività quelle grandi decisioni alle quali, nei diversi ambiti della vita associata, i tempi ci costringono.
La lentezza, la macchinosità del procedimento legislativo, la dispersione delle attività delle Camere in una miriade di piccole misure e provvedimenti minimi, che servono questa o quella piccola clientela, hanno portato alla legificazione di ogni settore dell’ordinamento, che impedisce a qualsiasi Governo, anche se animato da buone intenzioni, di farsi protagonista di un’attività riformatrice. All’insegna della centralità del Parlamento, le Camere si sono occupate di tutto, riducendo lo spazio di azione dell’esecutivo entro margini ridottissimi e impedendo al Governo di esercitare quella funzione esecutiva che gli deve competere, senza peraltro riuscire — aggiungo — a garantire un efficace sistema di controllo. L’unico strumento che il Governo ha a disposizione per far sentire la sua voce è il decreto-legge. Ma di questo strumento eccezionale e straordinario la prassi del nostro sistema costituzionale ha imposto un uso distorto e deviante, trasformandolo in un normale ed ordinario strumento di governo che viene utilizzato, ormai senza limiti, in ogni materia: decreti-legge in materia elettorale, decreti-legge in materia di libertà, perfino decreti-legge con quali viene soffocato il pubblico dibattito in campagna elettorale, in momenti cioè nei quali la democrazia deve assumere la pienezza del suo significato sostanziale e celebrare il suo momento più elevato. Sarebbe ingeneroso imputare ai singoli governi l’esclusiva responsabilità dell’uso di storto del decreto-legge e della prassi aberrante della reiterazione, che lo trasforma in ordinario e permanente strumento di legificazione sottratto ad ogni forma di controllo. È il Parlamento, per lo più sperduto dietro cure minute, sono le forze politiche, i partiti nella loro cronica incapacità decisionale a premere perché i governi, anche se privi di obiettivi consapevoli e di linee generali di indirizzo prestabilite e condivise da una maggioranza omogenea, legiferino in via straordinaria e precaria.
Ecco, da noi per governare al minimo è necessario il massimo di precarietà e di straordinarietà. È tempo che tutto ciò finisca! È tempo che con l’investitura diretta del suo vertice il Governo acquisti autorevolezza e capacità decisionale e disponga di strumenti ordinari di intervento. È tempo che, nel rispetto della separazione dei poteri e in una diversa visione del rapporto tra esecutivo e legislativo, il Parlamento non invada potestà esecutive, limiti la sua azione a norme di legge semplici, chiare e generali e cessi di ingombrare il campo di leggine… Insomma, ci vuole l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo! Coloro che per anni si sono alimentati al presente sistema, che ha profondamente alterato la logica della separazione dei poteri; coloro che hanno diffuso i loro metodi politico-clientelari basati sul proporzionalismo e sulle leggine di spesa – questa quota a te che sei il partito di maggioranza relativa, quest’altra quota a te che sei il principale partito dell’opposizione, quest’ulteriore quota anche a te, che pur essendo piccolo, hai un forte potere di interdizione –, tutti costoro sono insorti alla nostra proposta di riforma! Dopo essersi spartiti lo Stato e la società civile, dopo essersi inseriti in ogni più remoto ambito della vita sociale, portandovi filosofie lottizzatrici ed assistenziali, dopo aver spinto lo Stato e le istituzioni al collasso finanziario e ai margini del processo di unificazione europea, alcuni inveterati protagonisti del passato si arroccano a protezione di questo sfascio che hanno contribuito in misura non lieve a determinare! All’idea di un risolutivo rafforzamento dell’esecutivo che solo dall’elezione diretta e dall’attuazione piena del principio della separazione dei poteri può venire; all’idea di un ambito proprio di competenze costituzionali del Governo, sottratto alla logica della mediazione continua e pervasiva (anche sui provvedimenti più scontati e doverosi); all’idea della costruzione di un’autonomia istituzionale dell’esecutivo e di una legittimazione propria, i nostalgici del proporziolismo e della consociazione insorgono. Si dichiarano non protetti e chiedono garanzie.
E la garanzia quale sarebbe? Blindiamo la nostra Costituzione, costruiamole attorno una muraglia invalicabile, facciamo sì che per la riforma che ci viene proposta occorrano maggioranze irraggiungibili, modifichiamo il procedimento di revisione in modo che la vera revisione, di cui c’è bisogno, non possa aver luogo. Questa inversione delle linee di tendenza della nostra storia, segnata da un referendum che ha impresso al nostro sistema una spinta verso il bipolarismo non così facilmente reversibile nel breve periodo... questa inversione negli ambiti variegati della sinistra, che pure si proclamano liberali e anzi impartiscono un po’ a tutti lezioni di liberalismo, pretende di avere una giustificazione ideale. L’elezione diretta del vertice dell’esecutivo comporta la personalizzazione della politica e contiene pericoli autoritari, essi dicono. Con questa proposta – ecco la parola d’ordine delle sinistre — si vogliono azzerare le libertà. L’equazione tra elezione diretta del vertice dell’esecutivo e sistema autoritario è però un falso. Bisogna smetterla di falsificare le proposte altrui. Se le sinistre ritengono che il sistema che ci ha governato sia buono, se intendono perpetuarlo chiamandone a raccolta tutti gli eredi, se intendono curare quel malato grave che sono le nostre istituzioni con fìnte riforme che lasciano tutto come è – e magari ci si riesce conquistando posizioni di ulteriore privilegio con sacrificio del paese –, abbiano il coraggio di dirlo e di assumersene davanti a tutti la responsabilità. Volete che con una riforma costituzionale sia posto ai governi l’obbligo di pareggio di bilancio? O volete lasciarvi libere le mani e scegliere lo sbilancio e l’aggravio delle condizioni della finanza pubblica come strumento di conquista e di mantenimento del consenso? Le nostre libertà, quelle che sono scritte nella parte I della Costituzione, sono care a noi, prima di tutto. E noi vogliamo che quelle libertà civili, politiche, amministrative e sociali siano preservate e realizzate.
“Tale riforma dovrà essere nel senso della trasformazione della seconda Camera in un organo rappresentativo delle autonomie locali; sarà questo il luogo dove le competenze spettanti ai diversi livelli territoriali”
Non sarà certo l’elezione diretta dell’esecutivo a conculcarle. Questa anzi contribuirà a renderle effettive. Un mutamento della nostra forma di governo con il sistema presidenziale noi lo vediamo come la sola via praticabile non solo per favorire la nascita e il consolidarsi di aggregazioni politiche solide, orientate a competere per la guida del Governo, ma anche per inverare quelle libertà che la consociazione ha negato rendendo precarie le basi finanziarie sulle quali un moderno sistema di libertà si regge. Nulla vogliamo toccare e per parte nostra nulla sarà toccato dei principi sostanziali della Costituzione. Da quando anche voi delle sinistre avete riconosciuto che la Costituzione economica non è una variabile indipendente del sistema di libertà, da quando, proclamativi liberali, dichiarate di credere nel mercato come bene fondamentale ripudiando – non tutti, in verità – la vostra vecchia idea, quella che chiamavate la democrazia progressiva che doveva portare con l’egemonia dell’ideologia marxiana alla collettivizzazione ed al superamento del mercato e della libera iniziativa economica, ebbene dopo tutti questi fondamentali cambiamenti, quel sistema di libertà e di diritti fondamentali, finalmente da inverare, può diventare la casa comune. L’idea di libertà che abbiamo in mente e che guarda al mercato, alla produzione, al lavoro, all’inventiva, all’intelligenza ed alla cultura come le nostre autentiche risorse che possono portarci a competere alla pari con le nazioni progredite, non ha nulla a che spartire con il liberismo selvaggio e darwiniano. I diritti sociali, colleghi delle sinistre, non sono solo questione vostra. Essi fanno parte della nostra cultura e sono legati a quell’idea di solidarietà tra gli uomini dalla quale il nostro liberalismo in economia non è disgiunto.
Ma c’è una differenza tra noi e voi: i diritti sociali per noi non sono una variabile indipendente rispetto alle condizioni della finanza pubblica! La sostanziale assenza di governi autorevoli e legittimati, che non fossero prigionieri delle consorterie della spesa pubblica e che non considerassero il crescente indebitamento dello Stato come una condizione beneficia e comunque ineliminabile nel welfare State, è per noi la causa prima del disastro finanziario e morale della cosa pubblica! L’azione diretta del vertice dell’esecutivo che, con una forte legittimazione di investitura, ponga il Governo al riparo delle consorterie politiche della spesa pubblica, è per noi la chiave di volta che può determinare un diverso modo d’essere del rapporto tra cittadino e Stato! L’elezione diretta del vertice dell’esecutivo rende questo responsabile delle politiche pubbliche di fronte agli elettori! Il rafforzamento dell’esecutivo e la sua preminente responsabilità della politica finanziaria e di bilancio concorrono a mantenere i diritti sociali nel loro ambito naturale, a legarli alle condizioni della finanza pubblica, a far sì che essi non trasformino – come è accaduto da noi – lo Stato sociale in Stato assistenziale. La riforma che proponiamo riguarda dunque il modo d’essere e di funzionare di una Costituzione che mantiene intatto un patrimonio di valori che appartiene alla tradizione e che, anzi, intende svolgerlo in maniera equilibrata, collocando alla base dell’intero edificio un sistema di diritti che, in campo economico, guardano all’impresa e all’iniziativa privata come al motore del sistema produttivo e, in campo sociale, guardano alla finanza pubblica come condizione sine qua non di qualunque aspettativa il cui soddisfacimento richieda l’intervento finanziario dello Stato! Il sistema che abbiamo in mente tende a valorizzare il mercato non solo come luogo ove si produce il benessere della nazione, ma dove si indirizzano e trovano appagamento aspettative di servizi efficienti, di beni materiali, morali e culturali; aspettative che, nell’età del consociativismo, guardavano ai pubblici poteri e relegavano il mercato e le imprese in una posizione subalterna.
Nel sistema che vogliamo, il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo si accompagna ad un rafforzamento del mercato e dei suoi protagonisti. La privatizzazione pressoché totale dell’economia pubblica è perciò una premessa perché il disegno si realizzi. Ma in questo stesso sistema si rafforza anche il Parlamento che, oltre ad essere il vertice della legislazione generale e della tutela delle libertà (le cosiddette riserve di legge in materia, appunto, di libertà devono essere mantenute, affinché ogni disciplina sia posta a seguito di un dibattito pubblico che dia voce alla maggioranza e alla opposizione) deve diventare la sede del controllo stringente dell’attività dell’esecutivo affinché questa sia sempre più attività trasparente! La minoranza dovrà vedere rafforzato il proprio ruolo con la elaborazione di un vero e proprio statuto delle opposizioni. Nell’ambito di tale statuto, potranno essere addirittura previste forme di ricorso diretto alla Corte costituzionale a tutela dei diritti e dello status di parlamentare tutte le volte in cui le maggioranze, con propri atti, abbiano conculcato la posizione delle minoranze. Ma c’è un altro problema di fondo: il federalismo in un equilibrato sistema di bilanciamenti verso il completamento di una vera e propria democrazia maggioritaria, vanno rinvigorite le autonomie. Il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica, scritto nell’articolo 5 della Costituzione, deve essere mantenuto fermo, sottratto a qualunque tentativo di revisione e protetto da tutte le istituzioni statali, anche contro i tentativi di minarne il valore etico, con virulente promesse di secessione simboleggiate dalla goffa creazione di parlamenti del nord! La nostra fedeltà ai principi fondamentali è assai più salda di quella di chi, per miope tatticismo politico, avendo evidentemente perduto ogni idealità e non sapendo più liberarsi da un machiavellismo fine a se stesso, blandisce il vero nemico della Costituzione come possibile alleato contro le forze autenticamente riformatrici presenti nel paese.
Fermo dunque il principio di indivisibilità della Repubblica, bisogna avviare, finalmente, il percorso delle autonomie, come del resto espressamente previsto dalla nostra Costituzione. Dico «avviare», perché i salti in avanti verso un federalismo oscuro e parolaio vengono proposti e trovano sorprendentemente seguito — un seguito tutto tattico e strumentale — senza che in Italia la strada di un vero Stato regionalista e del le autonomie sia stata neppure tentata. Le regioni e gli enti locali debbono avere competenze proprie ed esclusive in materie in cui lo Stato non deve interferire con proprie leggi, né l’esecutivo esercitare poteri politici sotto le mentite spoglie del controllo di legittimità. I controlli statali di legittimità o di merito sull’attività delle regioni vanno tutti aboliti, deve restare solo la tutela giurisdizionale dei singoli e dei gruppi davanti ai giudici competenti. Le regioni debbono avere quell’autonomia finanziaria, sia sul versante dell’entrata sia sul versante della spesa, che la Costituzione vagamente promette e che le leggi ordinarie hanno sistematicamente negato, riducendo regioni ed enti locali a soggetti erogatori di spese predeterminate nella qualità e nella quantità. Leggi statali hanno contribuito a deresponsabilizzare i diversi livelli di governo: lo Stato, che di fronte alla grave inadeguatezza dei servizi ha sempre potuto dire che la responsabilità è delle regioni alle quali spettano le competenze materiali sull’organizzazione e sull’erogazione di una molteplicità di servizi, la regione che ha sempre potuto dire — ed ha sempre detto — che l’entità delle risorse è stabilita dallo Stato e che la direzione della spesa pubblica è vincolata per decisioni statali.
Come nei rapporti tra Parlamento e Governo, così in quelli tra Stato e regioni, nulla funziona, ma nessuno è responsabile di alcunché. Con l’autonomia finanziaria le regioni disporranno finalmente di propri indirizzi politici e ne saranno esclusivamente responsabili, con l’ovvia precisazione che la capacità impositiva che va riconoscuta alle regioni non potrà rappresentare per esse una risorsa finanziaria esaustiva e che continueranno ad essere necessari trasferimenti di risorse verso le regioni più sfortunate, per ragioni di solidarietà, anche territoriale, che fanno una ed indivisibile la nostra Repubblica. Ma le regioni, a loro volta, non possono soffocare le autonomie minori, che sono la dimensione nella quale la stessa autonomia trova il suo più denso significato storico e sociologico. L’organizzazione dei poteri pubblici su base territoriale deve quindi essere improntata al principio di sussidiarietà, che nella nostra visione è anche un grande principio di libertà e che riguarda gli stessi rapporti tra società ed istituzioni.
Alla base vi sono la società civile, gli individui e la loro possibile sfera di azione. Tutti i bisogni di beni, di acquisto di servizi, tutte le aspettative che i singoli possono soddisfare da soli, senza la necessità del sostegno pubblico, fanno parte dell’ambito di libertà di una società moderna, che è segnato da un limite entro il quale lo Stato ha solo compiti di disciplina e di regolamentazione. Dove, invece, gli individui da soli non riescono – e qui già occorre distinguere i cittadini a seconda delle loro condizioni economiche e sociali – soccorre la comunità territoriale immediatamente più vicina, la cui sfera di competenze si spinge fino al punto in cui ad un livello territoriale superiore si può far meglio e a costi minori; il tutto in un processo ascendente e non discendente, che parte dai singoli cittadini e giunge fino alle comunità sovranazionali, rispetto alle quali lo Stato è solo ima dimensione intermedia. È, poi, necessaria una riforma dell’attuale sistema bicamerale che, anche per l’eccessivo numero del parlamentari, comporta un inutile spreco di lavoro e lungaggini dei procedimenti decisionali quali nessuna moderna democrazia potrebbe e può sopportare. Tale riforma dovrà essere nel senso della trasformazione della seconda Camera in un organo rappresentativo delle autonomie locali; sarà questo il luogo dove le competenze spettanti ai diversi livelli territoriali troveranno la prima e più importante garanzia politica e dove il principio di sussidiarietà troverà la sua protezione. Il completamento della forma di governo a elezione diretta del vertice dovrà venire da un pregnante sistema di protezione del diritti fondamentali, che deve rovesciare il rapporto tra Stato e cittadini e che dovrà essere la base e al tempo stesso il coronamento dell’edificio.
Tutti coloro che saranno lesi in un loro fondamentale diritto da un atto dei pubblici poteri (non importa se del Parlamento, del Governo, della pubblica amministrazione o dei giudici) dovranno avere la possibilità di ricorrere efficacemente fino alla Corte costituzionale. E’ questa, fra tutte, la garanzia che ci è più cara e nella quale proponiamo le maggiori speranze per la piena realizzazione di una vera democrazia nel nostro paese. Non siamo in presenza di garanzie rivendicate dalle opposizioni parlamentari che sono, certo, importanti ma non esaustive perché nel Parlamento non si esaurisce la vita di uno Stato; si tratta, invece, di offrire garanzie ai cittadini. L’ampiezza e l’efficienza di tali garanzie danno la reale misura del grado di civiltà raggiunto dal paese. Dopo tanto vano vociare sui diritti, tenuti presenti in Italia solo in quanto comportavano un’utilità politica per i partiti, si deve oggi guardare al cittadino libero, non protetto dall’appartenenza politica perché dal cittadno deve partire il processo riformatore e verso il cittadino deve orientarsi. Merita infine qualche considerazione l’ipotesi di innalzare il quorum dell’articolo 138 per rendere più ardua la revisione della prima parte della Costituzione. Le riforme che abbiamo in mente, e che saranno i punti salienti del programma politico del polo, non mirano certo ad eliminare o anche soltanto ad attenuare le libertà fondamentali; sono semmai intese a potenziarle e a far sì che esse divengano principi attivi, libertà reali dei cittadini. Non abbiamo pertanto alcuna obiezione d’ordine generale a che i principi fondamentali di libertà siano rinvigoriti e resi più difficilmente modificabili anche attraverso garanzie formali. È su tali principi di libertà che dobbiamo verificare la possibilità, la necessità di costruire insieme la casa autenticamente comune.
Mi limito a pochi esempi. Riserve ci vengono dal fatto che non siamo certi che vi sia identità di vedute sul modo di intendere quelle libertà e siamo colti dal sospetto che sia diffusa tra i nostri oppositori una visione molto ideologica, che considera quelle libertà come strumento di superamento del sistema economico di mercato. Non siamo neppure certi che abbiate la nostra stessa sensibilità per le garanzie di libertà individuali, sulle quali la prima parte della Costituzione è imperniata. Quando leggiamo, ad esempio, nell’articolo 13 della Costituzione, che la libertà individuale è inviolabile, siamo certi di assumere il termine «inviolabile» nella sua accezione più piena e collochiamo tale libertà nel punto più elevato del sistema dei valori? Altrettanto ci accade quando leggiamo nell’articolo 14 della Costituzione che la libertà domiciliare è inviolabile, o ancora, nell’articolo 15, che inviolabili sono la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni o che inviolabile è il diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio. Quando, nell’articolo 27 della Costituzione, leggiamo che nessuno può essere ritenuto colpevole prima della condanna definitiva, avvertiamo il medesimo sentimento di insoddisfazione per le gravi illibertà nelle quali viene amministrata la giustizia? E sentiamo che i nostri propositi di riforma corrispondono a grandi valori costituzionali ancora inattuati?
Credo che agli italiani, che sono gli ultimi giudici di quello che noi qui discutiamo, possa e debba essere sottoposta la decisione sulle proposte alternative di modifica della seconda parte della Costituzione
Qualche dubbio insorge anche a proposito dei diritti sociali e del ruolo che essi devono svolgere in un sistema retto dai principi dell’economia di mercato; credo, quindi, valga la pena affrontarne qualcuno. Emblematica è la vicenda del cosiddetto diritto al lavoro, da grande valore che avrebbe dovuto orientare le politiche pubbliche verso il rafforzamento dell’economia di mercato è stato trasformato poco a poco in uno dei fattori di disgregazione delle basi economiche dello Stato sociale, a causa dell’accollo agli apparati pubblici, oltre ogni limite di sopportazione, di clientele politiche dedite, nel migliore dei casi, a compiti di surrogazione occupazionale di un’impresa privata mortificata e impoverita. So bene, dal canto mio, cosa esattamente voglia dire l’articolo 4 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto. Vuol dire che la disoccupazione deve essere al primo posto nel programma di un Governo rispettoso della Costituzione Vuol dire che l’iniziativa economica, dalla quale soltanto può venire il progresso della società, deve essere favorita; vuol dire che l’impresa deve essere liberata dai mille legacci, dagli irrazionali burocratismi e taglieggiamenti che ovunque la contrastano e le impediscono di assolvere alla sua missione di benessere. L’articolo 4 della Costituzione, però, non può significare, come invece si è sostenuto e si sostiene tuttora tra voi, che lo Stato possa farsi garante, finanziatore o addirittura gestore di attività economiche improduttive, che non accrescono la ricchezza, ma distolgono le risorse dagli impieghi economicamente produttivi Su questi punti, ai fautori della irrivedibilità della prima parte della Costituzione chiediamo la massima chiarezza.
Qual è la loro interpretazione dei diritti sociali? I principi che li esprimono devono essere letti nel contesto di uno Stato sociale, in un sistema di economia di mercato, od in quello di uno Stato assistenziale ad economia collettivista? La prima parte della Costituzione è viva e può essere ancora vitale. Solo alcune interpretazione ideologicizzanti sono divenute obsolete, quando non sono state addirittura travolte dalla storia, come in effetti è accaduto alla pretesa di leggere nell’articolo 4 3 una promessa di collettivizzazione dell’economia, da contrapporre alla libera iniziativa economica garantita a tutti dall’articolo 4L Se viene chiaro e forte, da parte vostra, un pronunciamento sul significato di un ulteriore irrigidimento formale della prima parte della Costituzione; se per voi quell’irrigidimento formale non vuol dire assicurare ultrattività e copertura costituzionale alle dissolute politiche pubbliche che hanno condotto il paese sull’orlo del collasso finanziario, non ho altre obiezioni, per parte nostra non abbiamo altre obiezioni — e parlo a nome di tutto il polo — a che i principi liberaldemocratici, non disgiunti dai principi di solidarietà fra gli uomini e fra le generazioni, intesi finalmente in un’accezione comune a tutti, siano mantenuti a fondamento della Costituzione e dichiarati non rivedibili. Sull’ulteriore irrigidimento e sull’innalzamento dei quorum le mie obiezioni sono di carattere culturale. Se i diritti fondamentali non entrano nella cultura di un popolo, se intorno alla loro portata e al loro reale contenuto non c’è accordo nel paese, non c’è garanzia formale che tenga. Quei diritti sono destinati a non inverarsi e ad essere perenne motivo di conflitto politico, con la conseguenza che quel conflitto, mantenendo ferma la vostra originaria ideologia, l’avrete portato tutto intero nella Costituzione.
Se invece c’è accordo, omogeneità di vedute e chiarezza nella scelta di civiltà, nessuna garanzia è migliore dell’esercizio di quei diritti da parte dei cittadini e del raccogliersi attorno a tali diritti della parte migliore della nostra cultura. Ecco perché nel proporre formali irrigidimenti avete l’onere di dichiarare se volete ritornare all’età del conflitto costituzionale permanente, che sotto le sembianze di interpretazioni divergenti della Costituzione ci ha impedito di avere un sistema unitario, o se volete davvero una Costituzione unica nei suoi principi cardine. E se la seconda è la vostra scelta, la parte sostanziale della nostra Costituzione per noi va bene e deve restare intatta La nostra proposta di elezione diretta del vertice dell’esecutivo non è, del resto, che il tentativo di ampliare e rafforzare il nostro sistema di libertà, proprio a partire dalla libertà politica. Solo assicurando ai cittadini la possibilità di scegliere direttamente chi è destinato a governarli, quel sistema di libertà, che noi per primi vogliamo proteggere, trova il suo punto di riferimento in un Governo trasparente e politicamente responsabile di fronte agli elettori ed il principio di sovranità popolare cessa di essere una vuota proclamazione. Ciascun elettore, grazie alla sua immediata opportunità di opzione, si sentirà immesso direttamente nel circuito della decisione pubblica.
Signor Presidente, signori deputati, nei momenti in cui occorre far funzionare sul serio la democrazia e scegliere per il bene del paese sulla base di proposte alternative tra loro è decisivo trovare un terreno d’intesa sulle regole e sulle garanzie che consentano di fare questa scelta in un clima sereno, in un contesto chiaro, non già di consociazione politica ma di condivisione civile. Il mio vero rammarico è di non essere riuscito ad ottenere prima, quando ne scrissi all’onorevole D’Alema, da leader del polo che aveva vinto le elezioni e da Presidente del Consiglio dei ministri una discussione seria ed impegnativa sul tema delle regole. In quest’ultimo periodo si sono fatti sensibili progressi in questa direzione. Il clima è cambiato; c’è un’aria nuova. Le coalizioni candidate a governare il paese si vanno consolidando nei loro programmi nella scelta degli uomini, nella maturità politica in vista del voto popolare che, da solo, può restituire piena legittimità di funzionamento al sistema politico emerso dalla rivoluzione referendaria del 18 aprile 1993. Non esistono patti surrettizi e non sarà certo il polo delle libertà a coltivare una mescolanza impropria delle identità e delle responsabilità politiche nel senso di un nuovo consociativismo Credo che sul tema della decisione finale, e cioè su quale debba essere la scelta in ordine alla revisione della seconda parte della Costituzione e alla forma di governo della seconda Repubblica, sia possibile trovare soluzioni limpide, che non blindino la Costituzione e la democrazia, che non offen dano il buon senso e che garantiscano tutti che la scelta, reversibile come tutte le scelte democratiche, sarà consapevole e responsabile.
Credo che l’idea di un referendum confermativo, reso comunque obbligatorio, o persino quella di un referendum alternativo, recentemente riaffacciatasi nel dibattito istituzionale, possa esprimere in massimo grado questo elemento indispensabile di garanzia. Credo che agli italiani, che sono gli ultimi giudici di quello che noi qui discutiamo e che hanno il diritto di essere loro a scegliere la forma di governo, possa e debba essere sottoposta, dopo un ampio dibattito nel prossimo Parlamento, la decisione sulle proposte alternative di modifica della seconda parte della Costituzione. Gli italiani sanno scegliere e sanno votare nei referendum, come hanno dimostrato dal 1974 ad oggi, con una puntigliosità e con una capacità di essere liberi che è il tratto migliore della nostra storia.
Signor Presidente, onorevoli senatori, sette anni fa presentammo in quest'Aula il programma del nostro primo Governo; da allora molte cose sono cambiate e ciascuno di noi ha imparato molto dai fatti della vita e della politica.
Ma consentitemi di cominciare con una frase schietta, diretta, semplice. Noi siamo qui per lo stesso motivo di allora: vogliamo cambiare l'Italia. Lo faremo pacificamente, nell'ordine, nel libero dibattito democratico, guardando ai valori fondamentali della persona scolpiti nella Costituzione della nostra Repubblica, nel rispetto intransigente dei diritti civili di ciascuno, ma lo faremo. Lo faremo nella legalità, in piena integrazione nel sistema istituzionale vigente e nel rispetto di tutti i poteri costituzionali dello Stato, ma lo faremo. Lo faremo nell'ottimismo, che non c'è mai mancato, nello spirito di fiducia e di collaborazione con tutti coloro che mostrano buona volontà e anche in un clima sereno, ma lo faremo, perché il Paese, che noi tutti amiamo, ha il diritto di compiere e completare al meglio la lunga e difficile transizione che ha investito il sistema politico e costituzionale.
C'è un capitolo da chiudere definitivamente, ed è quello della vecchia politica, e c'è un capitolo tutto da scrivere, quello di un nuovo modo di fare politica. Vorrei cominciare da qui, evitando i riti ripetuti, i riti stanchi delle vecchie formule, i buoni propositi, le parole vuote, gli omaggi dovuti, l'inventario dei problemi o il libro dei sogni. Vorrei, invece, nel momento in cui chiedo a voi la fiducia per l'atto fondante dell'investitura parlamentare, cogliere il senso complessivo di questa svolta necessaria. Vorrei parteciparvi lo spirito che ci muove e che ci guiderà nell'azione di Governo. Vorrei, anzi voglio, assumere qui avanti a voi, nel Senato della Repubblica, l'impegno ad essere il Presidente del Consiglio di tutti gli italiani.
L'identità di questo Governo e, se mi consentite, la sua peculiare posizione nella storia del Paese è chiara ormai a tutti. Dopo cinque anni la coalizione delle opposizioni è diventata maggioranza. Non era mai successo nei lunghi decenni, dal 1948 al 1994, anno dell'applicazione della nuova legge elettorale maggioritaria, e anche successivamente non si era mai prodotta la classica circostanza di tutte le democrazie europee: l'opposizione che si fa Governo, la maggioranza che diventa opposizione, per decisione degli elettori.
In alcuni momenti era accaduto addirittura il contrario e il vento
trasformista umiliava le istituzioni con la minoranza che si faceva Governo e la vera maggioranza del Paese costretta all'opposizione nonostante il voto degli elettori.
Questo meccanismo salutare che lo scrutinio maggioritario ha reso possibile, questo insieme di stabilità nella legislatura e di ricambio costituzionale alla guida di Governo i politologi lo chiamano "alternanza". Per noi questa alternanza rappresenta l'ossigeno della democrazia, é l'antidoto naturale alle tentazioni consociative e ad una visione manovriera e cinica della politica nazionale. E' un primo grande cambiamento che fa dell'Italia, finalmente, una democrazia compiuta.
Da questo giudizio, credo inattaccabile, discende la prima questione di metodo che penso sia utile sottoporre alla vostra attenzione: il rapporto tra Governo e opposizione. Noi abbiamo e avremo sempre il massimo rispetto per i diritti e le prerogative della minoranza e per la sua funzione di controllo costituzionale degli atti dell'Esecutivo, funzione seria, sacra, insostituibile in una democrazia. Per questo le minoranze hanno uno statuto parlamentare, spazi riconosciuti, inviolabili e incomprimibili nelle istituzioni del Paese e il diritto di manifestare liberamente il loro pensiero, un diritto che si combina con gli effetti di una stampa libera di criticare e contestare la maggioranza e il suo Governo. Sono i presupposti della dialettica democratica, la base del confronto che vogliamo aperto, forte, schietto ma sempre rispettoso dei ruoli che la Costituzione assegna a maggioranza e a opposizione.
Non ci spaventa la contrapposizione, soprattutto quando nasce dalle idee, dalle convinzioni e dalla passione politica. Auspichiamo soltanto che il confronto si svolga sempre in un clima di serenità e di correttezza istituzionale, senza ambiguità, alla luce del sole, senza confusione di ruoli, senza i sospetti e le ombre degli intrighi consociativi.
Ci mettiamo volentieri alle spalle polemiche, anche motivate e di rilievo, sui cinque anni trascorsi, sul modo in cui furono formate le due diverse maggioranze di centro-sinistra e sulla gestione della vita parlamentare, comprese le riforme costituzionali per così dire solitarie e la definizione di regole ad hoc nel campo dell'informazione. Ma ribadiamo con profonda convinzione che questo Governo e la sua maggioranza, nella loro autonomia e in quanto espressione diretta della sovranità popolare, hanno il diritto e il dovere civile di governare, cioè di attuare nei tempi programmati il loro programma di Governo.
Con la posizione assunta al vertice NATO e al Consiglio europeo il Governo ha evidenziato la continuità della linea di politica estera che intende rafforzare con un più incisivo impegno per la costruzione europea e per il suo futuro, così come per il consolidamento dell'Alleanza atlantica e del rapporto con gli Stati Uniti. Impegno europeo, anzitutto. E' intenzione del Governo portare avanti il programma di lavoro adottato con il trattato di Nizza, che presenteremo quanto prima al Parlamento per la ratifica. Sono caduti ormai gli ostacoli all'allargamento dell'Unione europea e abbiamo di fronte a noi la responsabilità storica di unificare il continente nella democrazia e nella libertà, dopo i due totalitarismi nazista e comunista e dopo le divisioni del dopoguerra.
Siamo inoltre e lo siamo con un accento speciale amici degli Stati Uniti d'America. In quell'amicizia indistruttibile stanno, infatti, le radici della nostra libertà e quell'alleanza tra pari che è il fondamento strategico della nostra sicurezza. I decenni passano, i Muri crollano e alla Guerra fredda si sostituisce il compito ben più esaltante di costruire un ordine mondiale policentrico, un equilibrio nuovo tra le aree sviluppate e quelle in via di sviluppo, in un'impegnativa battaglia contro i mali della povertà, delle grandi epidemie, dell'analfabetismo e della fame.Si stagliano di fronte a noi grandi questioni strategiche. Miliardi di uomini premono con i loro bisogni, con le loro ansie di emancipazione dai vincoli del sottosviluppo, con le loro identità e le loro religioni, con i loro costumi e i loro valori e nel mercato, che ormai è globale, vengono messe in campo nuove occasioni di sviluppo, potenzialità immense di conoscenza e di ricerca, tendenze demografiche esplosive insieme a tutta quella rete di mobilità sociale, di migrazioni transfrontaliere, di evoluzione degli stili di vita e di lavoro di interi popoli.
Alla vigilia del G8, cioè del vertice mondiale che l'Italia avrà l'onore e la responsabilità di presiedere, bisogna ribadire una verità che noi teniamo per salda e sicura: non c'è questione dirimente della vita contemporanea, dalla tutela dell'ambiente alla conquista di una pace stabile e ben garantita in termini di sicurezza militare, che possa essere risolta senza il metodo della reciprocità e del negoziato tra gli americani e noi europei, nel rispetto di un alleato storico dell'Europa libera e nel quadro di una puntigliosa tutela della nostra indipendenza e del nostro orgoglio nazionale.
A Genova, il Governo coglierà l'occasione per un messaggio forte sui grandi temi della modernizzazione e della lotta alla povertà. La lotta contro l'emarginazione e la miseria, soprattutto nel tormentato continente africano, non è solo un dovere etico; significa anche espandere le frontiere della democrazia, prevenire i conflitti, attenuare i fenomeni migratori. Sul problema del debito, 23 Paesi stanno beneficiando di una sostanziale riduzione. Essa si tradurrà nella cancellazione dei crediti commerciali e di aiuto per complessivi 54 miliardi di dollari. L'Italia andrà oltre le intese di Colonia, con la cancellazione del 100 per cento di tutti i crediti commerciali e di aiuto ai Paesi che avranno completato il negoziato.
Ma condonare il debito non garantisce lo sviluppo. Il Governo si impegnerà perché nel G8 si pongano le basi per un patto di reciproca responsabilità. Spetta a quei Paesi adottare al loro interno politiche mirate al rispetto dei diritti civili ed alla riduzione della povertà; spetta ai Paesi più avanzati aprire i propri mercati e dare risorse aggiuntive ai Paesi poveri che conducano politiche corrette. Ci adopereremo per fare in modo che la globalizzazione li aiuti ad uscire dall'emarginazione e a rimuovere gli ostacoli al loro sviluppo assicurando più risorse per la sanità e l'istruzione, più libertà di vendere i loro prodotti, più investimenti privati. Il Governo sta operando con gli altri membri del G8 in questa direzione e anche nella direzione cruciale della protezione dell'ambiente e della sicurezza alimentare.
Agli italiani e agli europei che dissentono, che si preparano a manifestare in piena legittimità a Genova, il Governo si rivolge con una sola voce, con una sola parola: siamo aperti al dialogo, purché il diritto costituzionale venga rispettato, perché il diritto di manifestare è indisponibile da parte di qualsiasi autorità.
Anche nel Consiglio europeo ci siamo occupati proprio degli stessi temi e delle stesse esigenze. Forse il problema è che non c'è, o non c'è stata fino ad ora, una linea di comunicazione tra noi e loro per far comprendere che in gran parte i loro obiettivi sono anche i nostri, sono gli obiettivi di chi ha ricevuto, democraticamente, la responsabilità di governare.
Signor Presidente, onorevoli senatori, non farò un'esposizione l'ho già detto tecnica e dettagliata del contratto con gli italiani e del piano di Governo elaborato e reso pubblico nel corso del confronto elettorale; documenti che i senatori della maggioranza conoscono parola per parola per esserne stati divulgatori e che anche i senatori dell'opposizione conoscono per esserne stati critici puntuali.
Non ricorderò, per esigenze di tempo, tutti i singoli impegni che abbiamo chiamato "missioni" e tutte le misure e le opere a cui ci siamo impegnati per ammodernare lo Stato, la sua architettura istituzionale, le sue leggi, le sue infrastrutture e per far decollare il Mezzogiorno. Le abbiamo affidate alla testimonianza, che non mente e che non vola via, della carta stampata e del testo scritto. Se abbiamo fissato in una forma contrattuale le nostre intenzioni non è per una concessione alle regole spettacolari del confronto elettorale, ma per un'intima convinzione: il Paese ha storicamente sopportato un tale numero di rinvii e di elusioni del dovere di governare e di realizzare i programmi presentati agli elettori che una nuova delusione dovrebbe essere necessariamente seguita da un dignitoso ritiro dalla vita pubblica di chi non sia stato capace di mantenere gli impegni assunti con gli elettori, uniformando l'attività di Governo all'arte e alla cultura del fare. Ma è qui, davanti al Parlamento della Nazione, che quelle missioni diventano piano di Governo, che quegli impegni, confortati dalla vostra fiducia, diventano programma e strumento dell'azione governativa.
Consentitemi, dunque, di tracciare solo una sintesi delle questioni più rilevanti che ci accingiamo ad affrontare da ora alla fine della legislatura. La prima questione concerne la riforma federalista dello Stato; la devoluzione di poteri effettivi di Governo alle regioni e della connessa responsabilità, anche fiscale. Il tema del federalismo è stato imposto all'attenzione generale nel corso degli ultimi dieci anni dentro e fuori dalle istituzioni. La battaglia federalista ha avuto il merito di porre il grande problema di decentrare poteri e responsabilità effettivi in un contesto di equilibrio territoriale tra Nord e Sud e di unità nazionale.Il nostro federalismo, infatti, si fonda sui princìpi di autonomia e sussidiarietà. Secondo il principio di autonomia, il soggetto fondamentale dell'esperienza sociale, politica e istituzionale è rappresentato dalle comunità locali, amministrate dai loro enti rappresentativi. Insieme alle regioni e alle province, quindi, non possiamo non ricordare il ruolo particolare dei comuni, che sono il portato più significativo della ricchezza e della varietà della nostra storia.
Il principio di sussidiarietà, dal canto suo, consente invece non solo di valorizzare l'autonomia della società civile, delle famiglie, delle organizzazioni sociali e delle imprese, ma anche di tutelare l'autonomia delle comunità e delle organizzazioni più piccole nei confronti di quelle più grandi. Saranno questi princìpi, più che le dispute astratte sui diversi modelli di federalismo, a guidarci nell'opera di ammodernamento dello Stato e della sua architettura istituzionale.
In materia di sanità, d'istruzione e di sicurezza civile, con la necessaria gradualità ma in tempi certi e coniugando efficienza e solidarietà, intendiamo dunque imprimere una svolta federalista alla macchina dello Stato, ridisegnando di conseguenza intere sezioni architettoniche dell'edificio pubblico.
Abbiamo criticato la riforma costituzionale solitaria della vecchia maggioranza di centro-sinistra perché pensavamo e pensiamo che si debba fare di più e di meglio, ma faremo di tutto affinché gli adempimenti che a quella legge costituzionale conseguono tra questi la consultazione popolare non fermino il processo di riforma e il suo allargamento e non gettino il Paese in un'altra stagione di esercitazioni propagandistiche ed elettoralistiche. In materia di federalismo, ripeto, dobbiamo fare di più e di meglio di quanto finora è stato fatto. Questa è la nostra stella polare, le tecnicalità seguiranno. Una riforma federalista, dopo la decisione di eleggere direttamente i sindaci e i presidenti delle province e delle regioni, implica naturalmente una ridefinizione dei poteri e della stessa procedura di legittimazione dell'autorità centrale; implica cioè un rafforzamento netto del potere dell'Esecutivo e del suo vertice. Pensiamo, in definitiva, al federalismo per valorizzare le energie locali e al tempo stesso ad un moderno presidenzialismo per garantire l'unità della Nazione.
In un sistema istituzionale bilanciato devono in pari tempo aumentare i poteri di controllo del Parlamento, che può diventare un organo legislativo più agile e più operativo di quello attuale, fatte salve le antiche prerogative di una lunga e onorata tradizione repubblicana.
Su tutta questa materia furono raggiunte intese di massima, e anche imbastite misure specifiche, nel corso dei lavori di diverse Commissioni bicamerali costituite negli ultimi decenni e le diverse forze politiche hanno un loro profilo programmatico ormai sufficientemente preciso, sia quelle di maggioranza sia quelle di minoranza. Non sarà difficile, questo è almeno l'auspicio del Governo, trovare un'intesa di fondo per promuovere i cambiamenti necessari, nel rispetto delle necessità e dei tempi di un serio dialogo ma con la consapevolezza di un programma da attuare nelle sue linee fondamentali.
Il Governo, alla fine, chiederà al Parlamento di procedere conclusivamente verso l'orizzonte per noi irrinunciabile di uno Stato profondamente rinnovato. La società dell'informazione, della nuova economia, del pluralismo culturale, religioso e tecnico, richiede come esigenza primaria uno Stato che non sia più l'arcigno controllore dei doveri del cittadino, bensì il difensore autorevole e forte delle sue libertà e dei suoi diritti inalienabili. È ormai chiaro a tutti che gli straordinari progressi delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni sono alla base di alcune profonde trasformazioni economiche e sociali che stanno modificando la nostra vita quotidiana e debbono essere governate per migliorare le nostre attività, le nostre capacità professionali, le nostre possibilità di informazione e di comunicazione.
L'esempio di molti Paesi, gli Stati Uniti ma anche di molti nostri partner europei, mostra i grandi vantaggi che si possono ottenere da efficaci politiche informatiche in termini di crescita economica, di creazione di posti di lavoro, di qualità dei servizi disponibili, di competitività generale. Con la creazione del Ministro senza portafoglio per l'innovazione e le tecnologie abbiamo inteso colmare una visibile carenza del passato: la mancanza di una visione, di una strategia nazionale complessiva e coerente che sappia tradursi in un piano d'azione e in progetti coordinati. Partiamo certamente da una posizione di ritardo ma uno dei principali obiettivi di questo Governo è portare il nostro Paese in una posizione di leadership nell'era digitale.
In questo grande sforzo di ammodernamento dell'Italia la pubblica amministrazione occupa certamente il primo posto.
Le recenti parole del Governatore della Banca d'Italia ancora una volta confermano che esiste un problema di efficienza e di efficacia dell'attività della pubblica amministrazione. Sono parole che il Governatore della Banca d'Italia ha pronunciato recentemente. Il nostro è dunque uno dei Paesi dove il settore pubblico meno contribuisce alla competitività dell'economia e quindi al suo sviluppo. L'obiettivo che il Governo si pone è trasformare la pubblica amministrazione da handicap a punto di forza per il nostro competere nell'economia mondiale. Nell'orizzonte temporale di questa intera legislatura il Governo intende quindi impegnarsi a fare molti e importanti passi avanti per realizzare un nuovo modello di amministrazione pubblica: più efficiente, realmente al servizio dei cittadini e delle imprese, più snella e veloce, più accessibile, più trasparente.
Questo grande sforzo verrà condotto non solo utilizzando le moderne tecnologie ma anche con interventi riorganizzativi, riducendo il carico di compiti e di funzioni che gravano sull'amministrazione, ridisegnando i processi amministrativi per renderli funzionali ai destinatari finali, decentrando responsabilità e attività, creando nuovi e più moderni servizi, attuando uno strategico investimento di riqualificazione e miglioramento professionale dei dipendenti pubblici.
Il modo in cui le amministrazioni e gli uffici si organizzano non deve costituire un ostacolo per i cittadini e le imprese nella soluzione dei loro problemi; al contrario, anche attraverso l'effettiva interoperatività, deve garantire, in tempi molto più rapidi di quelli attuali, risposte e risultati. L'interconnessione informatica può assicurare un'amministrazione unica, a cui è possibile fare riferimento e con cui soddisfare ogni esigenza.
l Governo si impegnerà affinché, al termine di questa legislatura, la stragrande maggioranza dei servizi ai cittadini e alle imprese sia accessibile e disponibile in rete
Un'altra area di primaria importanza, in questo sforzo di modernizzazione dell'Italia, è naturalmente la scuola, dalle classi iniziali all'università. Tutti gli studenti dovranno ricevere un'ottima formazione informatica di base; gli insegnanti dovranno usufruire di programmi di preparazione; tutte le scuole e gli istituti dovranno essere collegati a Internet.
Altri campi di intervento del Governo, con appositi programmi e incentivi, riguarderanno l'addestramento e la formazione professionale continua per chi è già nel mondo del lavoro e soprattutto per chi ne è al di fuori, per facilitarne le capacità di inserimento, e politiche che contrastino o evitino il cosiddetto digital divide, cioè la divisione tra chi può far parte e beneficiare dei vantaggi della società dell'informazione e chi invece ne rimane al di fuori.In sostanza, si tratta di un grande disegno di modernizzazione del Paese che potrà essere realizzato attraverso la mobilitazione degli uomini e l'efficace riallocazione delle risorse.
C'è poi da mettere mano al complesso delle leggi. Oggi in Italia esiste un numero incalcolabile di leggi che non garantisce certezza del diritto e serenità a chi vuole operare nel pieno rispetto delle regole. Si tratta di rivisitare il codice civile, il codice penale, i codici delle procedure; si tratta di abrogare molte leggi, di riunire le normative delle varie materie in testi unici e di dare vita ad un nuovo codice fiscale abrogando le attuali oltre 3.000 leggi fiscali. È un immane lavoro a cui chiameremo i migliori fra i nostri giuristi, contando di completarlo entro la legislatura.
Signor Presidente, signori senatori, è nostra intenzione ridurre la pressione fiscale, esentando i redditi marginali e fermando gradualmente l'aliquota dell'imposta personale al di sopra di una certa soglia, a un terzo del reddito.
È nostra intenzione aumentare rapidamente le pensioni più basse fino al livello minimo di un milione di lire. Non si tratta di bandiere elettorali né di parole d'ordine, ma di una necessità economica e, per certi versi, anche morale. Da un lato, sgravando il reddito dal peso soverchio di un'imposta sentita come oppressiva e ingiusta, si stimola la fiducia nel sistema, la propensione a investire e a consumare, l'autonomia e la responsabilità individuale di fronte ad uno Stato che fa un passo indietro e non si propone più come controllore ingombrante della libera iniziativa dei cittadini. Dall'altro lato, aumentando il reddito di chi ha più bisogno, di chi è rimasto indietro nella scala sociale perché le circostanze della vita e l'età l'hanno reso più debole, si sposa un grado maggiore di libertà, un elemento indispensabile di coesione della società, di solidarietà fattiva ed efficace all'interno della comunità. L'economia sociale di mercato è poi questa e,come tutte le grandi idee, è qualcosa di semplice: più libertà e più solidarietà.
La riforma dell'IRPEF e delle pensioni sociali minime non è naturalmente che uno degli elementi di una gestione innovativa della leva fiscale e della spesa pubblica, due obiettivi che perseguiremo nelle nuove condizioni istituzionali connotate dalla riunione dei Ministeri delle finanze, del bilancio e del tesoro.
Rilanceremo altresì la logica, già sperimentata con successo dal nostro primo Governo, dell'incentivazione al reinvestimento degli utili d'impresa. L'emersione della parte sommersa del nostro apparato produttivo e di servizi, anche attraverso una oculata riforma del mercato del lavoro nel senso di una accresciuta flessibilità del nostro sistema contrattuale, è da mesi materia di confronto, e in alcuni casi anche di scontro, tra le parti sociali.Il Governo farà la sua parte per favorire soluzioni che estendano la logica del mercato e dello sviluppo, dunque della creazione di lavoro qualificato, soprattutto nel Mezzogiorno. È un'opera da intraprendere senza ledere unilateralmente alcuni diritti acquisiti di base, ma anche senza cedere ad una visione statica, conservatrice e corporativa delle giuste tutele sindacali che fanno parte imprescindibilmente di una sana economia di mercato. Per creare lavoro non effimero occorrono capitali e la decisione di investirli secondo le convenienze di un mercato regolato, ma libero. Non lo insegna un'astratta filosofia liberista, lo dimostra l'esperienza di milioni di imprenditori italiani.
Veniamo alla situazione dell'economia italiana e dei conti pubblici che è, per usare un eufemismo gentile, una situazione molto complicata. Non siamo qui per lagnarci di chi ci ha preceduto e per addebitargli ciò che non va, ma non possiamo nascondere al Parlamento e alla pubblica opinione alcuni dati di fatto da cui ripartiremo con ottimismo e con grande volontà per fare quel che pensiamo sia giusto fare. La situazione economica internazionale è caratterizzata da grande incertezza. L'espansione congiunturale iniziata nel 1999 ha portato ad una crescita molto forte in Europa e, in misura minore, anche in Italia. Quella buona congiuntura si è però rapidamente dileguata, anche per l'incapacità di assecondarla, in particolare da noi, con misure attive di risanamento e di sviluppo. È in corso, come sapete, una verifica attenta dei conti pubblici, ma è fin d'ora chiaro che gravano su di noi ipoteche assai più pesanti di quelle che la gestione elettorale delle cifre lasciava intravedere fino al 13 maggio.
Noi intendiamo lavorare tenacemente perché i cittadini possano continuare a fare assegnamento sui benefici del sistema previdenziale, del sistema sanitario, del sistema assistenziale e perché una strategia espansiva porti ad un aumento consistente e duraturo dell'occupazione. L'Italia nell'ultimo decennio ha avuto uno sviluppo al di sotto della media europea. Ciò era dovuto anche alla difficoltà di rimuovere alcuni squilibri strutturali: molti di quegli squilibri non sono stati ancora superati. Possiamo e dobbiamo rimuoverli, nel contesto di una politica che privilegi l'aumento della produzione e la competitività. Abbiamo le risorse di lavoro e le capacità imprenditoriali, dobbiamo farlo con l'ausilio delle parti sociali. La coesione è una delle condizioni dello sviluppo e della competitività.
Il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, ha espresso in più riprese il suo monito affinché si agisca sul fronte della spesa pubblica, sulla struttura dei mercati e sulla leva fiscale con l'obiettivo di selezionare meglio le spese improduttive del settore pubblico e rendere disponibili i capitali necessari al rinnovamento delle infrastrutture di base, a cominciare da quelle per i trasporti. La chiave di tutto, secondo la più alta istituzione finanziaria del Paese, che nella sua autonomia e indipendenza rappresenta anche un saldo punto di riferimento dentro e fuori l'Italia, è proprio nel recupero di competitività del nostro sistema sui mercati internazionali.
19 giugno 2001.
A questo scopo occorre attirare in Italia una quota maggiore di investimenti esteri ed affermare una politica dei redditi che ci salvaguardi dal rischio dell'inflazione. Pensiamo che la politica dei redditi debba essere volta a garantire la stabilità perché alcune fasce di lavoratori già occupati non perdano il posto di lavoro e perché si creino opportunità per le numerose schiere di giovani che si affacciano alle responsabilità della vita e che debbono avere fiducia nelle possibilità di sviluppo e di progresso civile del nostro Paese. Dobbiamo premiare il merito, la voglia di lavorare, di intraprendere, di progredire.
Il Governo è già al lavoro per la preparazione del Documento di programmazione economico-finanziaria, nel quale le azioni necessarie a procedere lungo queste linee di sviluppo assumeranno definizione e concretezza. Poniamo davanti a tutto il bene comune, il bene di un'Italia più moderna e più giusta, più operosa e più solidale, un'Italia che investe nel futuro, l'Italia dei padri, l'Italia dei figli.
Non c'è piano economico di successo senza che si rimettano in moto gli investimenti, pubblici e privati, per realizzare ambiziosi progetti infrastrutturali: ponti, metropolitane, strade, autostrade, nuove linee ferroviarie, nuove tipologie nel campo dell'alta velocità. Saranno le grandi opere individuate dal nostro piano decennale che arricchiranno e consolideranno il Paese e lo renderanno più vicino ai bisogni dei cittadini e allo stesso tempo creeranno lavoro, ricerca, cultura e altre utilità pubbliche e private.
Abbiamo le competenze giuste per realizzare questi grandi progetti e lo faremo anche innovando nella legislazione e chiamando il capitale privato a concorrere alla realizzazione, così come avviene nei più avanzati Paesi europei.
Le compatibilità ambientali saranno lo standard al quale ci atterremo; perché è finito il tempo in cui era vero che governare è asfaltare, ma respingiamo con forza la filosofia integralista secondo la quale la tutela dell'ambiente è incompatibile con la realizzazione di grandi opere pubbliche. L'Italia ha bisogno di un ambientalismo serio e responsabile che non pregiudichi la possibilità di progettare il futuro.
Signor Presidente, onorevoli senatori, giustizia e sicurezza non sono soltanto i capitoli obbligati di un serio programma di Governo, sono anche e soprattutto i principali regolatori di tutta la vita pubblica. Si forma una comunità politica in quanto si ha chiaro che tutti i cittadini, chiunque essi siano e quale che sia la loro identità sociale, sono sottomessi alle stesse leggi, correttamente applicate da magistrati imparziali.Di questi magistrati e giudici l'Italia è stata ed è ricca. Sette anni fa, in questa stessa Aula, feci il nome di due martiri e simboli assoluti di onestà e di devozione alla causa della legalità. I sette anni passati da allora hanno, se possibile, consolidato e allargato i confini della loro leggenda di uomini giusti. Parlo, come avrete capito, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ma è certo che si forma una comunità politica in quanto la libertà di ciascuno è limitata dal rispetto della libertà dell'altro. E questo rispetto è garantito dalla delega all'autorità pubblica del potere e della responsabilità nell'uso della forza. Senza giustizia e senza sicurezza, esterna e interna, non può esistere alcuno Stato degno di questo nome. Non è dunque per sollecitare o assecondare paure sociali diffuse di fronte ai fenomeni di criminalità che questa coalizione, oggi fattasi Governo, ha condotto alcune delle sue più convinte battaglie.
Abbiamo proposto e riconfermiamo una politica cosiddetta di prossimità nell'impiego delle Forze dell'ordine, che devono sempre più essere collegate al territorio, radicate nella realtà della vita civile, formate e informate con i mezzi più moderni e con le tecniche investigative più avanzate, e dunque provviste di organici adeguati e di mezzi adeguati.Confermiamo i nostri impegni e continuiamo ad evidenziarli, dopo la discussione sul Documento di politica economica e finanziaria, nella stesura di bilancio per l'anno 2002.
La tutela della sicurezza per le famiglie e per le persone sole, in particolare per le persone anziane e deboli, che sono spesso oggetto di odiose prepotenze, non è una concessione all'idea di uno Stato repressivo e autoritario; al contrario, è l'espressione più limpida di un'idea liberale di ciò che è nei fatti la funzione del potere pubblico. Che cosa ne è della mia libertà e della mia stessa vita di cittadino libero se un altro può agevolmente limitare i miei movimenti, costringermi dentro casa in preda all'angoscia, colpirmi a suo piacimento senza la certezza che sarà punito da un'autorità giusta e imparziale?
Abbiamo anche sempre evitato di identificare erroneamente la questione della sicurezza interna con il problema dell'accoglienza e dell'integrazione di quote crescenti di immigrati nei confini del Paese. Lo faremo con una politica dell'immigrazione che soddisfi le esigenze dello sviluppo economico e sociale del Paese, disciplinando i flussi e combattendo gli ingressi clandestini nell'osservanza dei criteri del Trattato di Schengen e nel quadro di una forte politica della sicurezza in ambito europeo.
Signor Presidente, signori senatori, la politica di difesa a tutela della sicurezza esterna del Paese deve fare un salto di qualità legato alla formazione di Forze armate professionali. L'Italia ha ormai una politica europea e internazionale vincolata a impegni crescenti nel campo della sicurezza e del mantenimento della pace in aree centrali per l'equilibrio geopolitico che interessa noi e gli alleati. La politica di difesa ha bisogno di investimenti di qualità, di un processo di formazione che deve inevitabilmente integrare l'industria della sicurezza collettiva con le nuove acquisizioni della tecnologia militare e con i patti sottoscritti dal nostro Paese. È uno di quei settori in cui l'innovazione, di fatto, dev'essere accompagnata da una continuità di princìpi e di valori. In nome di quei princìpi, senza alcun formalismo, credo di rappresentare tutta l'Assemblea se rivolgo un saluto ai nostri ragazzi in missione nel mondo e il nostro omaggio alle Forze armate italiane, alla loro storia e al loro presente al servizio del mantenimento della pace. Devo dire che niente dimostra la nuova fiducia degli italiani in se stessi quanto il clima di commozione sincera che tutti avete visto pervadere le celebrazioni, fortemente volute dal Presidente della Repubblica, della festa della Repubblica nello scorso 2 giugno.
Sarebbe un elemento di forte modernizzazione della vita politica italiana se riuscissimo, una volta per tutte, su questo piano così delicato della vita collettiva, ad eliminare le barriere partigiane legate a vecchie posizioni ideologiche. Lo abbiamo fatto dai banchi dell'opposizione, lo abbiamo fatto lealmente, con impegno e convinzione; sempre, sui grandi temi di politica estera e di difesa nazionale, lo spirito e il voto sono stati,per così dire, bipartisan. Ci piacerebbe che così fosse anche adesso, a parti invertite, per riaffermare, ora come allora, l'imprescindibile valore degli interessi superiori dell'Italia. Non c'è schieramento di parte né contrapposizione politica che possa dividerci su un valore così alto che tutti ci impegna, maggioranza e opposizione.
Per le riforme strutturali della giustizia rinvio ai testi scritti, ampiamente conosciuti. Ci sono state polemiche su un preteso assoggettamento a indicazioni parlamentari del lavoro dei magistrati; in realtà noi pensiamo che l'attuale sistema non debba affatto essere rovesciato. Ci limitiamo a proporre integrazioni e innovazioni, che sono nella legittima potestà delle Assemblee legislative. L'obbligatorietà dell'azione penale e l'autonomia della magistratura sono princìpi del nostro ordinamento e, in quanto tali, da rispettarsi scrupolosamente; ma sono anche problemi da risolvere, in quanto questi princìpi sono realizzati solo in parte e talvolta in modo del tutto insoddisfacente: basti pensare all'alto numero di reati per cui non si procede e agli effetti perversi di una totale unificazione delle carriere e delle funzioni tra magistratura inquirente e magistratura giudicante.
Desidero qui ricordare che questi problemi furono affrontati già durante i lavori della Costituente, al punto che alcuni insigni giuristi di limpida fede democratica si preoccuparono di definire il ruolo e la potestà del Parlamento nella formulazione e nella verifica degli obiettivi nel campo della sicurezza e della giustizia, fatta salva l'autonomia dei magistrati. Se una maggioranza e un Governo si autolimitassero fino al punto di escludere dal novero dei problemi, che affronteranno con il concorso naturalmente di tutte le parti interessate nel rispetto di una sana dialettica parlamentare, le principali questioni di amministrazione della giustizia, vorrebbe dire che viviamo in una Repubblica dimezzata e che la fonte della sovranità legislativa si condanna ad inaridirsi e ad estinguersi. Per quanto sta in noi, visto che anche dall'opposizione siamo stati parte attiva per la costruzione delle regole costituzionali del giusto processo, non sarà così e speriamo in una leale collaborazione di tutto il Parlamento.
Veniamo al tema della sanità, che è lo specchio del grado di civiltà di un Paese. Un Paese dove esistono lunghe liste di attesa per prestazioni specialistiche, dove si rischia di non trovare posto in rianimazione o in unità coronariche, dove non di rado i letti dei malati occupano i corridoi, non è un Paese civile. La salute è uno dei diritti che uno Stato deve garantire ai suoi cittadini indipendentemente dalle loro condizioni sociali. Non abbiamo nascosto le nostre critiche alla riforma della Sanità approvata dai precedenti Governi, critiche del resto condivise dalla maggior parte degli operatori del settore. Noi riteniamo che si debba applicare anche nel campo della Sanità il principio di sussidiarietà come criterio fondamentale per migliorare i servizi e avvicinarli ai bisogni dei cittadini, abbandonando la strada della centralizzazione e della burocratizzazione. Si dovrà fare dell'autonomia delle regioni il mezzo per accrescere il grado di efficacia e di personalizzazione delle prestazioni e per riorganizzare un sistema pubblico-privato che parta dalla centralità del cittadino e dalle sue necessità.
Per questo occorre affrontare il problema dei rapporti dei medici con le strutture sanitarie, riducendo in maniera significativa i vincoli attuali che demotivano fortemente una categoria che oggi si sente poco considerata e soggiogata alle regole burocratiche dell'amministrazione pubblica. Il medico non è soltanto un impiegato dello Stato, ma è un professionista a cui è affidata la missione di tutelare il bene costituzionalmente garantito della salute.
Occorrerà anche esaminare attentamente le cause da cui deriva il disavanzo che si è registrato negli ultimi anni e assumere di conseguenza le decisioni più appropriate. Lo faremo con l'obiettivo di soddisfare le esigenze dei cittadini, che dal Servizio sanitario nazionale richiedono più facile accesso, migliore qualità e personalizzazione, alta professionalità degli operatori, umanità nel trattamento ed equità nei confronti di tuti.
Altro tema centrale, la scuola.Stiamo vivendo una rivoluzione tecnologica destinata a cambiare profondamente la nostra società, la nostra economia, ma anche le nostre prospettive di benessere e le nostre stesse libertà. Credo sia un fatto straordinario di cui tutti sentiamo l'importanza, un'opportunità per tutti noi ma soprattutto per i giovani. Bisogna però entrare dentro questa opportunità, essendo capaci di goderne, di sfruttarla, di utilizzarla pienamente. Ciò non può avvenire senza una profonda riforma di tutto il nostro sistema di istruzione. La nostra scuola è lontana dall'avere i mezzi, i programmi, le capacità di formare dei giovani che possano in qualunque Paese del mondo trovare il modo di affermarsi, di realizzare se stessi, di contribuire al progresso generale, e ciò nonostante l'impegno e la dedizione di tanti insegnanti.
La new economy, la nuova economia, ha aumentato le sfide che mettono alla prova i sistemi educativi, ma la nostra scuola sembra subirla più che dominarla. Non c'è più tempo da perdere. Se l'Italia vuole davvero contare nel mondo integrato dell'economia dovrà investire, dovrà investire molto nel campo della formazione, dell'università, della ricerca. Investire nel capitale umano è il modo migliore non solo per rendere competitive le nazioni, per aumentarne la ricchezza, ma soprattutto per aiutare chi oggi non è in grado di trarre vantaggio dalla globalizzazione. Nel nuovo millennio la nuova frontiera dell'uguaglianza, della giustizia sociale e della libertà si gioca e si giocherà in gran parte sul terreno della cultura e della formazione. Per queste ragioni intendiamo fare della scuola un tema preminente della nostra politica di Governo, procedendo anche in questo campo nella direzione della sussidiarietà, perché siamo convinti che dove c'è più autonomia della società civile, delle istituzioni, dei privati non c'è solo più democrazia, ma c'è anche maggiore qualità e maggiore efficienza.
Il nostro obiettivo è dunque quello di realizzare un sistema formativo di qualità e di libertà, una scuola correlata al mondo della cultura ma anche del lavoro, dell'impresa, della produzione, una scuola che sappia garantire ai nostri figli un avvenire sicuro. A proposito delle riforme che troviamo già fatte, la nostra posizione è nota. Rifiutiamo la strutturazione in cicli, così come è stata disposta, della scuola elementare e media.Il Governo, a tale proposito, ritiene necessaria una compiuta e complessiva valutazione del problema degli ordinamenti scolastici in tutti i suoi aspetti, familiari, pedagogici, sociali. A questo fine l'attuazione della riforma va rinviata e del resto la Corte dei conti, formulando un rilievo sul regolamento che prevedeva l'avvio della riforma delle prime due classi dell'attuale scuola elementare a partire dal prossimo 1º settembre, ha comunque già di fatto reso impossibile l'avvio della riforma per tale data. Siamo convinti invece che sarebbe dannoso interrompere in corsa la riforma universitaria detta «delle lauree brevi» e ci comporteremo di conseguenza, pur riservandoci di introdurre i correttivi e gli adeguamenti che si renderanno necessari.
Quanto ai finanziamenti per garantire la libertà scolastica e il diritto delle famiglie ad avere una scelta più ricca e una scuola migliorata dal meccanismo della concorrenza e dell'emulazione, non accetteremo una concezione dirigista e statalista di quel bene pur fondamentale che è la scuola pubblica.
Il tema dell'educazione è strettamente legato a quello della famiglia, uno dei pilastri più importanti della nostra azione di Governo. La famiglia, come noi la concepiamo, è l'ambito naturale in cui si prospettano i valori morali e civili fondamentali; è un grande elemento di coesione sociale e di solidarietà ed è anche la garanzia per il futuro del Paese. Per questo tutta la nostra politica, dalla fiscalità ai fondi pensione, dagli asili nido ai contratti di lavoro, sarà mirata a sostenere e a sviluppare la famiglia,come fondamento di un nuovo patto sociale, come fattore di solidarietà fra le generazioni, come sorgente di valori positivi e cellula primaria della società.
Nella strategia del Governo un ruolo di grande rilievo sarà riservato ovviamente alle attività e ai beni culturali. Questo Governo non pensa - ed è logico - di imporre una sua cultura e una sua visione dell'arte, della musica, del teatro e del cinema, ma intende favorire la più libera e multiforme espressione delle culture e dei fermenti presenti nella società italiana, contribuendo alla diffusione nel mondo delle nostre arti e della nostra cultura. Nello stesso tempo, si impegna alla più severa ed efficace tutela del patrimonio culturale, artistico, archeologico e monumentale accumulato nei secoli. Nessun Paese al mondo potrebbe permettersi di lasciar deperire e di tenere inattive le straordinarie riserve e risorse che compongono l'impareggiabile patrimonio culturale ed artistico dell'Italia. Su questo capitale anzi intendiamo investire, convinti come siamo che questa sia la più grande risorsa del nostro Paese. Pochi altri Paesi possono vantare il patrimonio di cultura dell'Italia e la straordinaria vitalità delle nostre comunità all'estero.
Abbiamo dunque il dovere di valorizzare queste ricchezze.
Intendiamo rilanciare la nostra presenza culturale, diffondere la conoscenza e l'insegnamento dell'italiano, favorire l'internazionalizzazione delle nostre università, sostenere la cooperazione in campo scientifico e tecnologico. A questo scopo, il Governo si impegna a rivedere la legge sulla promozione della cultura italiana nel mondo. Con gli italiani che lavorano e vivono in altri Paesi l'Italia ha contratto un debito antico. La nomina del Ministro per gli italiani nel mondo è una testimonianza della volontà del Governo di attuare, nel più breve tempo possibile, la legge sul voto degli italiani all'estero.
Signor Presidente, signori senatori, mi sono pubblicamente impegnato a presentare una legge di regolamentazione dei conflitti potenziali di interessi. La situazione nella quale mi trovo era peraltro ben nota a tutti gli oltre diciotto milioni di italiani che mi hanno votato. Intendo, tuttavia, affrontarla con il massimo di oggettività e di efficacia possibili, ma ribadisco che la mia storia di imprenditore nel settore delle comunicazioni e la mia coscienza personale non autorizzano alcuno a sospettare, nella mia azione istituzionale, fini diversi da quelli del bene comune.
Il mio impegno sarà inderogabilmente mantenuto.
Prima della sospensione estiva dei lavori parlamentari, le Camere avranno a disposizione il nuovo testo legislativo in materia, nella forma di un disegno di legge del Governo.
Signor Presidente, signori senatori, ho ripercorso qui sommariamente i punti salienti del piano di Governo per una legislatura, che abbiamo presentato agli italiani e articolato nelle cinque grandi missioni per cambiare l'Italia e nelle cinque strategie per migliorare la vita dei cittadini. Lo richiamo idealmente nella sua interezza e nella sua originalità di fronte a voi, perché questo costituirà la guida del nostro agire quotidiano, perché questo costituirà l'impegno del Governo nella sua collegialità e di ogni Ministro nel settore di sua competenza.
Per dare concretezza al nostro impegno e per garantire, nell'attuazione del programma, il rispetto dei tempi che ci siamo assegnati, abbiamo nominato un Ministro che avrà proprio il compito di sorvegliare, di stimolare e di incalzare, giorno per giorno, l'attività di tutti noi per la puntuale esecuzione del contratto con gli italiani.
Chi è stato imprenditore sa che cos'è un contratto. Così, in questo modo, pensiamo di cambiare l'Italia, perché questa è la missione che gli elettori ci hanno assegnato, per l'Italia del 2010, per l'Italia del nuovo millennio.Ho già affermato molte volte che il nostro non è un progetto ideologico.
È un piano di Governo, non è un comizio, e lo realizzeremo, spero anche con il vostro consenso.Questo nostro progetto è semplicemente ciò che è indispensabile e urgente fare per il bene dell'Italia e di tutti gli italiani se vogliamo far crescere il nostro benessere, la nostra sicurezza, la nostra libertà. È, certo, una grande sfida; un compito tanto esaltante quanto difficile, ma dobbiamo provarci. Sento che l'Italia che ho in mente, di cui abbiamo parlato agli italiani nel corso della campagna elettorale, è quella che gli italiani vogliono. Per questo ci hanno dato fiducia, affidandoci la responsabilità di governare. E l'Italia che vogliamo è un Paese nel quale nessuno debba sentirsi un cittadino minore; un Paese dove nessuno debba sentirsi abbandonato nella malattia e nella povertà ; un Paese dove tutti possano vivere lo Stato e le sue istituzioni come la propria casa e non come un nemico in agguato; un Paese dove tutti abbiano la possibilità di istruirsi, di lavorare, di realizzarsi, di dare il meglio di sé; un Paese libero, prospero e giusto dove per tutti sia possibile tenere aperta la porta alla speranza. Questo è l'impegno che ho preso, che abbiamo preso, e tutti insieme lavoreremo per mantenerlo. Sentiamo tutta la responsabilità di questo compito e siatene certi non deluderemo chi ci ha dato fiducia. Mi auguro di cuore che tutti gli italiani, nessuno escluso, possano sentirsi protagonisti di questo grande progetto per cambiare l'Italia.
Sorriso impostato, nella luce vagamente soffusa. Alle spalle, una libreria e la foto di famiglia. Un set attentamente studiato. E' il 26 gennaio del 1994. Silvio Berlusconi registra il discorso con cui annuncia il suo ingresso in politica. Eccolo.
"L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà.
Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.
Per poter compiere questa nuova scelta di vita, ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che ho fondato. Rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza e tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza.
So quel che non voglio e, insieme con i molti italiani che mi hanno dato la loro fiducia in tutti questi anni, so anche quel che voglio. E ho anche la ragionevole speranza di riuscire a realizzarlo, in sincera e leale alleanza con tutte le forze liberali e democratiche che sentono il dovere civile di offrire al Paese una alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti.
La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L'autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica. Mai come in questo momento l'Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato.
Il movimento referendario ha condotto alla scelta popolare di un nuovo sistema di elezione del Parlamento. Ma affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che al cartello delle sinistre si opponga, un polo delle libertà che sia capace di attrarre a sé il meglio di un Paese pulito, ragionevole, moderno.
Di questo polo delle libertà dovranno far parte tutte le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle democrazie occidentali, a partire da quel mondo cattolico che ha generosamente contribuito all'ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria. L'importante è saper proporre anche ai cittadini italiani gli stessi obiettivi e gli stessi valori che hanno fin qui consentito lo sviluppo delle libertà in tutte le grandi democrazie occidentali.
Quegli obiettivi e quei valori che invece non hanno mai trovato piena cittadinanza in nessuno dei Paesi governati dai vecchi apparati comunisti, per quanto riverniciati e riciclati. Né si vede come a questa regola elementare potrebbe fare eccezione proprio l'Italia. Gli orfani i e i nostalgici del comunismo, infatti, non sono soltanto impreparati al governo del Paese. Portano con sé anche un retaggio ideologico che stride e fa a pugni con le esigenze di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia.
Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell'iniziativa privata, non credono nel profitto, non credono nell'individuo. Non credono che il mondo possa migliorare attraverso l'apporto libero di tante persone tutte diverse l'una dall'altra. Non sono cambiati. Ascoltateli parlare, guardate i loro telegiornali pagati dallo Stato, leggete la loro stampa. Non credono più in niente. Vorrebbero trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna.
Per questo siamo costretti a contrapporci a loro. Perché noi crediamo nell'individuo, nella famiglia, nell'impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell'efficienza, nel mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della libertà.
Se ho deciso di scendere in campo con un nuovo movimento, e se ora chiedo di scendere in campo anche a voi, a tutti voi - ora, subito, prima che sia troppo tardi - è perché sogno, a occhi bene aperti, una società libera, di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell'invidia sociale e dell'odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l'amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita.
Il movimento politico che vi propongo si chiama, non a caso, Forza Italia. Ciò che vogliamo farne è una libera organizzazione di elettrici e di elettori di tipo totalmente nuovo: non l'ennesimo partito o l'ennesima fazione che nascono per dividere, ma una forza che nasce invece con l'obiettivo opposto; quello di unire, per dare finalmente all'Italia una maggioranza e un governo all'altezza delle esigenze più profondamente sentite dalla gente comune.
Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di uomini totalmente nuovi. Ciò che vogliamo offrire alla nazione è un programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili. Noi vogliamo rinnovare la società italiana, noi vogliamo dare sostegno e fiducia a chi crea occupazione e benessere, noi vogliamo accettare e vincere le grandi sfide produttive e tecnologiche dell'Europa e del mondo moderno. Noi vogliamo offrire spazio a chiunque ha voglia di fare e di costruire il proprio futuro, al Nord come al Sud vogliamo un governo e una maggioranza parlamentare che sappiano dare adeguata dignità al nucleo originario di ogni società, alla famiglia, che sappiano rispettare ogni fede e che suscitino ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità. Un governo e una maggioranza che portino più attenzione e rispetto all'ambiente, che sappiano opporsi con la massima determinazione alla criminalità, alla corruzione, alla droga. Che sappiano garantire ai cittadini più sicurezza, più ordine e più efficienza.
La storia d'Italia è ad una svolta. Da imprenditore, da cittadino e ora da cittadino che scende in campo, senza nessuna timidezza ma con la determinazione e la serenità che la vita mi ha insegnato, vi dico che è possibile farla finita con una politica di chiacchiere incomprensibili, di stupide baruffe e di politica senza mestiere. Vi dico che è possibile realizzare insieme un grande sogno: quello di un'Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno più prospera e serena più moderna ed efficiente protagonista in Europa e nel mondo.
Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano."